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Interviste

Lucas Lopez: voglio che ascoltare la mia musica sia una scelta

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Sabato mattina incontro Lucas Lopez in un bar di Bologna: ci siamo dati appuntamento con lui e il suo team per approfondire la sua musica in una lunga chiacchierata. L’artista, originario di Santiago de Cile, scrive e canta in tre lingue – italiano, spagnolo e inglese – e nei suoi brani riflette il plurilinguismo e multiculturalismo che lo investono, spostandosi, in bilico, tra sonorità ed emozioni diverse, toccando influenze Soul e RnB.  

Se cerchi il suo nome su Spotify, ti sorprenderai nello scoprire che non troverai nulla: Lucas, infatti, sta portando avanti un percorso ben preciso, ha le idee chiare e si sta circondato da un team di cui si fida e a cui si affida. Come dice lui, questo è il momento di puntare tutto sul livesulla performance; e così porta avanti il suo percorso ricercando il contatto con la musica, proponendo al suo pubblico la scoperta della stessa in un modo viscerale e quasi primitivo.

Nell’ultimo anno i live che ha collezionato sono tanti: tra le altre esperienze ricordiamo l’apertura ai Westfalia il 3 marzo 2022, e quella a Courtney Marie Andrews, all’Arci Bellezza(Milano) il 6 giugno 2022. Il prossimo evento che lo vedrà protagonista è la partecipazione il 10 novembre, in qualità di headliner, all’evento organizzato da Rassegna Raster, sul palco del Mare Culturale Urbano, a Milano

Leggi cosa ci ha raccontato!

Ciao Lucas, vorrei iniziare chiedendoti: quando e in che modo ti sei avvicinato alla musica?

Ho iniziato a suonare all’età di 7 anni, dopo aver ricevuto una chitarra in regalo da mio padre: la trovò sistemando il garage, era un dono della parrocchia del nostro paese. Era tutta rovinata, senza corde: me la fece trovare, un giorno, sistemata, con le corde nuove, pulita. È stato lui poi a farmi avvicinare allo strumento e all’ascolto della musica. Inizialmente è stato un percorso da autodidatta, poi, finita la terza media, ho scelto di frequentare il Liceo Musicale, dove ho iniziato a studiare musica a livello accademico, accostando alla chitarra classica le percussioni. In terza superiore mi sono avvicinato anche al canto. È una cosa che è venuta dopo quella del cantautorato: ricordo che il primo brano è stato molto lungo da partorire, è un brano che ancora oggi porto ai concerti. 

La tua famiglia, quindi, ti ha sempre supportato nelle tue scelte?

Diciamo che quando una mamma sa che stai seguendo i tuoi sogni è inevitabile che sia la tua fan numero zero. Lei prima di tutti mi ha supportato, è stata presente a tutti i miei concerti. Anche i miei fratelli e mio padre. Sono tutti presenti nei miei brani, nei miei argomenti, nelle dediche, loro sono sempre con me. 

Canti e scrivi in più lingue: quando crei una canzone, hai delle sensazioni o delle emozioni che ti portano a scrivere in una lingua in particolare, o è una scelta di getto?

Non c’è mai stato un momento in cui ho detto: questo brano voglio scriverlo in spagnolo, in inglese, o in italiano. Lo spagnolo fa parte delle mie origini, è la lingua che ho iniziato a parlare grazie alla mia provenienza. L’inglese, invece, è la lingua dei miei mentori, dei miei punti di riferimento in musica. In testa ho un casino con le lingue: infatti sono le canzoni che scelgono. Non è un fattore decisionale, è una questione emotiva e sensoriale.

Su Spotify non compare nessuna canzone sotto il nome Lucas Lopez: eppure stai avendo esperienze live importanti. Perché allora non pubblicare niente di ufficiale?

Questa scelta si potrebbe confondere con la volontà di non voler lavorare con etichette, o di voler fare l’alternativo. Ma non è così. Nel nostro decennio abbiamo a disposizione tutto: possiamo pubblicare quello che vogliamo su ogni piattaforma; questo non è uno sbaglio, in passato anche io ho fatto questo percorso, ma ora non è ciò che mi rispecchia. Sono un cantautore in toto, ogni giorno agisco per la musica, e questo mi mette dei limiti: ho capito di aver bisogno di un team di professionisti, di voler lavorare con persone che abbiano voglia di sviluppare le mie idee. Professionista, per me, è chi prende il lavoro sul serio, e vuole fare questo percorso con te: per questo sono circondato da questo team che è qui con noi oggi, loro credono nel mio percorso e lo portano a un livello successivo di serietà. Siamo partiti da zero per poter arrivare a cento insieme. La fase live è stata quella che abbiamo deciso di iniziare per prima. Così ho iniziato ad aprire i concerti, a conoscere gli artisti, ad instaurare con loro un rapporto di amicizia e fratellanza. 

Come convinceresti, allora, una persona che non ti conosce a venire a un tuo concerto?

Se per risonanza venissi a conoscenza di un mio live, potrebbe incuriosirti il fatto che io scriva in diverse lingue. Questo può già essere un collante tra me e l’altra persona. Ma penso che non ci sia una vera e propria risposta per dirti di venire a un mio concerto. Alla fine, è una questione di scelte: vieni perché decidi di scoprire qualcosa di nuovo. Noi facciamo il procedimento inverso del solito: il pubblico non ha mai ascoltato nulla, e se piaci questo crea un effetto shock. Finché non apri questa porta non sai cosa c’è dietro.

Prova a descrivere, allora, la tua musica a qualcuno che non può ascoltarla…

La mia musica non è una musica senza genere, anche se spesso quando mi chiedono che genere faccio, molti arrivano alla conclusione di dire che non ne ho uno preciso. Io faccio musica senza ritrovarmi in un’unica cosa: ho un flusso continuo di generi dentro di me. Tu che non conosci la mia musica, ascoltandola puoi trovarci un genere dentro, ma sei tu ad averlo individuato. Per me la musica è un tutt’uno: è ritrovare un senso in quello che uno ha da dare. Quindi, ascoltare la mia musica deve essere una scelta.

Quali sono le tue sensazioni prima di un concerto? Hai sensazioni diverse quando stai per fare un opening rispetto ad un tuo live?

Fare un concerto è come questa intervista: il concerto, l’intervista, un’apertura sono momenti di presenza. Quando inizia il concerto io mi comincio a muovere, faccio dei passettini, sbuffo, e in quel momento quando mi portano all’attenzione, e mi dicono “stai per salire sul palco”, capisco quanto sia importante quello che sto facendo. Quando almeno una persona sta credendo in quello che sto facendo. Per questo non c’è differenza tra il performare o fare un’intervista: hai una opportunità ed è quella. Il fatto di fare apertura è accrescitivo, è una cosa in più. Ma è una cosa curriculare. Un’apertura importante è stata quella ai Westfalia: lì ho capito che le cose stavano diventando serie. È stato il momento in cui tutto si è relativamente confermato.

Hai attraversato anche l’Europa suonando in città come Barcellona e Amsterdam. La musica dal vivo è vissuta diversamente all’estero?

Credo che la concezione della live performance sia diversa in ogni città, anche all’interno dello stesso paese. Ho fatto un viaggio di più di 5.000 km: siamo partiti con la chitarra in macchina, e basta, senza scegliere. Mentre eravamo in Francia, un pomeriggio in cui non sapevamo dove andare a dormire, scopriamo totalmente per caso che c’era una serata open mic a Barcellona. Così siamo partiti, e arrivati a Barcellona abbiamo suonato, le persone erano felici, è stato bellissimo. Il fatto di essere all’estero è stato il surplus; da lì siamo arrivati anche ad Amsterdam, dove ho sentito il pathos, e la crescita che stavo attraversando. Dalle 60 persone di Barcellona, lì ci siamo ritrovati davanti a 250, ero parte integrante dello show di quella sera. Ho vissuto intensamente l’interazione con la mia musica.

Ci salutiamo con l’ultima domanda: a cosa stai lavorando e cosa ci dobbiamo aspettare?

Non c’è niente da aspettarsi: i miei piani variano a seconda di come mutano i giorni, vivo il presente e le persone che incontro, quindi non so cosa succederà. Il poetico della vita è proprio in questo. A cosa sto lavorando? Sto lavorando su me stesso. Giorno dopo giorno, lavoro sul trovare risposte nel mio vissuto e in quello delle persone che mi circondano. Quello che voglio fare è scoprire sempre di più. 

Chiara Grauso 

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