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Benjamin Clementine: il report del live di addio all’Alcatraz di Milano

Fine. L’ultimo atto della carriera dal vivo di Benjamin Clementine in Italia si è consumato, ieri sera, all’Alcatraz di Milano, con la seconda ed ultima data italiana, dopo quella del 22 marzo all’Estragon di Bologna, del suo tour di addio alla musica in favore del cinema e della carriera da attore, iniziata con la partecipazione ai pluripremiati “Dune” e “Blitz”. Un concerto forzatamente confidenziale, visti i problemi tecnici, dettati da un malfunzionamento dell’elettronica, che la crew dell’artista britannico, nonostante gli sforzi, non è riuscita a rimediare in tempo per lo show. Serata compromessa? No, perché l’unicità della musica dell’artista vincitore del Mercury Prize, il cui nome è stato accostato a quelli di Tom Waits, Leonard Cohen e Nina Simone, sta proprio nella potenza, che emana dalla fragilità.
Dopo l’apertura affidata al cantautore Beaven Waller, Benjamin Clementine, attesissimo sul palco nel classico completo scuro, ha portato in scena una scaletta di poco più di un’ora, dai toni teatrali, tra brani storici, intercalati da improvvisazioni e momenti istrionici, a tratti quasi farseschi, di interazione col pubblico. C’è un gioco di contrasti netti a caratterizzare le atmosfere di questo live, a partire dalla scenografia, essenziale ed elegantissima, con Clementine in prima linea, ammantato di nero, e la band su un piano rialzato alle sue spalle, composto da quattro postazioni bianche, ornate da qualche mazzo di piume candide (trovata semplice, ma geniale, a dare movimento alla scena), diversamente da quello nerissimo posto sul pianoforte bianco di Benjamin.
In apertura il tono è da subito intimista, con la voce di Clementine, ora potente, assertiva, ora sussurrata, quasi una confessione, che si dipana su una strumentazione rarefatta. È l’introduzione morbida, con cui l’artista ha preso per mano l’Alcatraz per accompagnarlo nel suo mondo, per l’ultima volta. Un commiato in sordina, suonato praticamente quasi in acustico, a causa dei problemi tecnici di cui sopra, evidenti sin dall’inizio, ma non per questo meno memorabile. I brividi partono già su “Condolence”, un classico, cantato da tutto il parterre, e primo affacciarsi di quel lato vagamente grottesco di Benjamin, che in un italiano giustamente maccheronico tiene alta l’interazione col pubblico lungo tutto l’arco del pezzo.
E proprio su “Condolence” arrivano le prime richieste di aiuto dice Benjamin ai suoi fan. Qualcosa non va, i volumi sono sballatissimi, il piano non pervenuto nel primo pezzo suonato, così come la voce, completamente schiacciata dalla band. «La situazione è… questa, ma ho molta stima del mio pubblico, so che siete intelligenti. Volevo fare una cosa figa, ma il computer ha detto di no e allora facciamo come se fossimo dieci anni fa, come ai tempi di “At Least For Now”», si prende un attimo per spiegare e, poi, attacca con un trittico di pezzi storici.
“Adios” è un tripudio, con la lunga improvvisazione centrale a elencare, in italiano, cose che potrebbero non essere più: «No more Montepulciano, no more Lucio Dalla, Celentano, Dante Alighieri, no more cathedrals o un’altra occasione in cui battere l’Inghilterra in un contesto calcistico». Gioca con i chiaroscuri Clementine, stempera il dramma con la farsa. A seguire, “Cornerstone”, sempre dall’album d’esordio, segna senz’altro un altro dei momenti migliori del live, così come “Nemesis”, intense e galoppanti, mentre sullo sfondo si svolgono scene dai toni surreali nei visual, rigorosamente in bianco e nero: una sospensione spazio temporale, in cui la musica di Clementine vive alla perfezione.
“God Save the Jungle” e una “I Won’t Complain” particolarmente emozionante, cantata da tutto l’Alcatraz, accompagnano il live verso la conclusione. Qualcuno dal pubblico vorrebbe “Winston Churchill’s Boy”, ma Benjamin ribadisce rammaricato: «Il computer dice: “no”». Dal pubblico arriva anche una voce di protesta, piuttosto dura e rivolta direttamente ai tecnici front of house, che, a fine serata, chiariranno al folto capannello assiepatosi attorno al mixer le ragioni dei problemi tecnici, apparentemente legate alla rottura di un hard disk. Chissà!
Lo spettacolo, però, deve continuare e Clementine lo sa bene: «Non preoccupatevi, credetemi», dice rientrato in scena, con la voce che va e viene, mentre declama e, poi, su “Michael”, l’ultimo dei suoi brani, prima della chiusura e dell’addio, questa volta per sempre, sulle note di “Caruso”, omaggio all’amatissimo Lucio Dalla e al pubblico italiano, che accompagna il canto per tutto il pezzo. Addio Benjamin Clementine musicista bohemien, la tua musica delicata e feroce rimarrà per sempre con noi, ma come dicevi: «Il bello della vita è che hai scelta». Tu hai preso la tua. Ad maiora!
Foto di Mairo Cinquetti
Testo di Cinzia Meroni