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Editoriali

SLIPKNOT: L’inferno si è scatenato sul Ferrara Summer Festival

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Slipknot - Foto Giuseppe Craca

Tra le mura storiche di Ferrara, la potenza devastante degli Slipknot, una band leggendaria che ha lasciato il segno.

C’è un pugno di giorni che ti rimane addosso come la pece bollente, come il sudore e la polvere sollevati da migliaia di anime in delirio. Il 17 giugno 2025 sarà uno di quelli. Ferrara, la città degli Estensi e dei cavalli impennati, stasera ha inchinato la testa e il cuore al suono primordiale degli Slipknot. E fidatevi, anche se le mie vene pompano hard rock classico, ruvido sì, ma con un’anima diversa, l’uragano Iowa è qualcosa di diverso. È un’esperienza che ti prende e non ti molla.

Eravamo qui, in Piazza Ariostea, il vecchio Listone messo a riposo per far spazio alla furia mascherata. Un sold-out annunciato, un’attesa quasi mistica per l’unica data italiana di una band che non si esibisce, ma possiede. Oltre trenta milioni di dischi venduti non sono un numero freddo; sono il testamento sonoro inciso nell’anima di una generazione che ha trovato nelle maschere e nella ferocia degli Slipknot la sua unica, vera voce. Dopo il trionfo del Knotfest Italy, l’aria era elettrica, carica di quell’odore di metallo rovente che solo il vero heavy può lasciare.

Alle 17:00, i cancelli si sono spalancati, inghiottendo un fiume di “maggots” affamati di decibel. I britannici Soft Play hanno scaldato i motori, ma è con i Motionless In White che la Piazza ha iniziato a vibrare davvero. Chris Motionless e i suoi hanno messo in scena uno show che è un pugno nello stomaco e una carezza all’anima oscura del metal contemporaneo, un prologo devastante per ciò che stava per arrivare.

Gli Slipknot a Ferrara

Il buio è quasi calato. E dal buio, la luce stroboscopica che squarcia l’oscurità e rivela otto figure. Otto incubi a occhi aperti, nove volti coperti da maschere che sono molto più di un travestimento. Sono la rappresentazione visiva di un dolore, di una rabbia, di un’alienazione che la band, fin dal suo debutto a fine anni Novanta, ha saputo trasformare in arte pura. Non è semplice nu metal o rap metal, no. È qualcosa di più viscerale, un thrash metal furioso che incontra la sperimentazione schizofrenica dei Mr. Bungle e la teatralità esasperata dei Kiss, ma con l’orrore dei B-movie anni ’80 tatuato sull’anima.

E poi, la voce. Corey Taylor. Signore e signori, qui ci dobbiamo fermare un attimo. Io, che amo le timbriche calde e le asprezze melodiche dell’hard rock classico, mi sono ritrovato catturato, ipnotizzato da quel ruggito. È un’orchestra di caos e melodia, un timbro che graffia l’anima e accarezza la pancia, capace di passare da un urlo primordiale a un canto quasi intimo. Taylor non canta, si squarcia dentro, vomita emozioni. La sua maschera, quella vuota e impassibile, ispirata a Michael Myers, non lo nasconde, lo libera. Gli permette di essere il canale attraverso cui la bestia interiore degli Slipknot si manifesta. È un trauma d’infanzia trasformato in potenza lirica, una lezione su come il dolore possa diventare un megafono per migliaia di voci.

Il loro show? Catene sbattute, fusti percossi, suoni metallici che sferzano l’aria, campionamenti disturbanti che ti entrano nelle ossa. Shawn “Clown” Crahan? Assente, che peccato. Invece Jim Root, c’è e si sente. Con la sua chitarra affilata come un rasoio, ha promesso un nuovo album che tornerà alle radici grezze di “Iowa” e “Vol.3“. Ascoltandolo stasera, con quel sound essenziale e punk che cerca di recuperare, non possiamo che sperare che quel desiderio si avveri. Il nuovo batterista, Eloy Casagrande, ha dimostrato stasera perché è lì: una macchina da guerra, un metronomo impazzito che si incastra perfettamente nell’inferno sonoro degli Slipknot.

E a chi, come l’ex consigliere della Lega Alcide Mosso, attacca il festival parlando di “satanismo” e “istigazione al suicidio” per un nome che significa “nodo scorsoio”… be’, caro Mosso, stasera non c’era nessun nodo scorsoio, ma migliaia di mani alzate che non volevano altro che essere legate a questa musica. Non c’era cultura di morte, ma una scarica di adrenalina pura, una liberazione catartica. Il “Ferrara Summer Festival” ha aperto nel segno del metal, e l’ha fatto con un botto che risuonerà per mesi.

Aspetti da migliorare

Nonostante lo spettacolo, non sono mancate alcune criticità organizzative. Le regole restrittive sulle bottiglie di acqua e i bagni insufficienti hanno creato disagi per il pubblico. C’era un senso di affollamento eccessivo, che ha reso difficile avvicinarsi al palco e godere appieno del concerto. Anche l’audio, ha generato lamentele. Infine, i tratti autostradali chiusi hanno complicato la logistica per molti, aspetti su cui lavorare per le future edizioni.

Paolo Pala