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Mark Hoppus: Fahrenheit-182: A Memoir

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Fahrenheit-182

C’è un momento, nella vita di Mark Hoppus, in cui tutto si ferma.

Un palco vuoto, una sedia nell’ambulatorio oncologico, la consapevolezza che il suo corpo, quello stesso corpo che saltava seminudo nei videoclip di “All the Small Things”, sta collassando dall’interno. È lì che comincia davvero Fahrenheit-182, l’autobiografia in cui il membro dei Blink-182 si mette a nudo con una sincerità disarmante.

Non è un semplice libro per fan, è un viaggio nella memoria, personale, musicale e fisica di un uomo che ha visto tutto: la gloria, la caduta, la malattia, la riconciliazione. E che ha deciso di raccontarla senza censure, ma con l’umorismo tagliente che ha sempre contraddistinto la sua voce sul palco. Il racconto parte da lontano: figlio di genitori divorziati, cresciuto tra i deserti polverosi della California e un’educazione religiosa che mal si conciliava con le sue aspirazioni, Hoppus si rifugia presto nel punk, nello skate e in quella musica veloce e grezza che un giorno avrebbe trasformato in un fenomeno globale. Non è un’infanzia tragica, ma è fatta di solitudini, di tentativi goffi di essere visto, ascoltato, amato, è qui che nasce il desiderio di salire su un palco e urlare tutto. 

La parte centrale del libro ripercorre con lucidità la parabola dei Blink-182: la formazione della band, le prime demo, il successo esplosivo a cavallo tra gli anni 90 e il 2000, ma anche i dissidi interni, le separazioni, gli equivoci mai risolti tra amici diventati colleghi. Mark Hoppus racconta senza amarezza, senza vittimismi, e anche i rapporti più complessi, come quello con Tom DeLonge, vengono trattati con rispetto e affetto, come si farebbe con un fratello con cui si è litigato troppo a lungo. A sorprendere è il tono: non c’è voglia di vendetta, né di riscrivere la storia, solo un desiderio onesto di capire e far capire. La musica è presente come sottofondo continuo, ma mai protagonista assoluta: perché questo non è un libro sui Blink-182, è un libro su Mark

Il punto di svolta arriva nel 2021, quando a Hoppus viene diagnosticato un linfoma. Il libro cambia ritmo, si fa più cupo, intimo, fragile. Ma anche qui l’umorismo resta: “Se devi farti la chemio, tanto vale farlo con stile” scrive in uno dei passaggi più grotteschi e teneri al tempo stesso. Le pagine diventano un diario di bordo emotivo, parla della paura, della perdita di sé, dei pensieri più neri (“Cosa resterà di me? Un tatuaggio di baci sul culo in decomposizione?”), ma anche della gratitudine, della forza ritrovata nella moglie, nel figlio, nei fan.

Scrivere il libro diventa parte della terapia, una forma di riconciliazione con se stesso, con la band, con la vita. L’ultima parte del libro è forse la più luminosa. 

Dopo la remissione, arriva la reunion con DeLonge, il ritorno sul palco, il Coachella del 2023, le lacrime dei fan. Ma non è un finale hollywoodiano. È un nuovo inizio, più maturo, più umano. “Avevamo bisogno di perderci per ritrovarci davvero” confessa. E il lettore sente che non è solo una frase a effetto: è la verità nuda di chi ha visto il fondo e ha deciso di risalire.

Fahrenheit-182 sorprende per il suo equilibrio: è ironico ma non superficiale, profondo ma mai pesante. Hoppus, aiutato dalla penna del giornalista Dan Ozzi, trova una voce narrativa unica: leggera nei toni, intensa nei contenuti. Il risultato è un racconto che si legge come un romanzo punk, con la struttura di un concept album: adolescenza, successo, rovina, rinascita. Non aspettatevi gossip o autocompiacimento. Il vero valore del libro è nella sua onestà. È la storia di un uomo che ha avuto tutto e ha rischiato di perdere sé stesso, per poi ritrovarsi cambiato, ma più vero che mai. Fahrenheit-182 non è solo l’autobiografia di un’icona del pop-punk. È la testimonianza autentica di un sopravvissuto, di un artista e, prima di tutto, di un essere umano che ha capito, finalmente, che la vera punk attitudine non è fregarsene di tutto, ma imparare a dare valore a ciò che conta davvero.

Testo di Piero Di Battista