Inatteso colpo di coda per i Fear Factory, che con “Genexus” pubblicano un album qualitativamente ben al di sopra dello sciapo predecessore “The Industrialist” (2012), ritrovando in parte la capacità di scrivere pezzi ben bilanciati fra attacchi cyber thrash e solenni atmosfere industrial metal. Non c’è da gridare al miracolo, perché tutto sommato il nuovo disco ricalca semplicemente quello che ai tempi fu sì un capolavoro; si parla ovviamente di “Demanufacture“, uscito esattamente vent’anni fa e rimasto il picco mai più raggiunto dalla band californiana. Le sonorità che fecero grande quell’opera si ritrovano tutte, dall’alternanza fra growl e clean vocals in grado di creare inevitabili climax emotivi, alla batteria secchissima perfetta nel sostenere i riff altrettanto essenziali di Dino Cazares. Semplicemente, gli arrangiamenti al synth si sono fatti più pomposi e dalle velleità quasi sinfoniche – ad esempio nell’intro con gli archi di “Dieletric” – rispetto agli originali di due decenni fa, ma non è necessariamente un male: spesso calzano a pennello con la volontà di grandeur fantascientifica che nutre l’intero “Genexus”.
Certamente, brani come “Autonomous Combat System”, “Anodized”, “Soul Hacker” (fra le poche in cui è possibile riscontrare qualche influenza dal più recente groove metal) e “Battle for Utopia” lasciano la sgradevole sensazione di aver a che fare con dei cloni veri e propri degli antichi cavalli di battaglia; in particolare, la title-track ha davvero troppo in comune con “Self Bias Resistor”…eppure qualcosa rimane, non tutto viene dimenticato dopo un paio di ascolti, anzi si è spinti a schiacciare di nuovo play, e questo con i Fear Factory non accadeva da molti (troppi) anni.
A margine, è interessante notare quanto, fin dal titolo, “Genexus” sia un omaggio palese a “Blade Runner”. I Nexus 6, infatti, erano i replicanti a cui dava la caccia Harrison Ford. Ci si spinge persino oltre: nella lunga elegia androide conclusiva, “Expiration Date” (chiaro riferimento alla ‘data di scadenza’ della vita di un replicante), una voce recita parole quasi identiche a quelle immensamente famose del monologo finale di Rutger Hauer: “All these memories will fade in time, like tears in rain. Time to die“. A posteriori, non sarebbe stato troppo difficile prevedere che prima o poi Bell e Cazares, da sempre ossessionati per certe tematiche inerenti la vita artificiale e il rapporto uomo-macchina, avrebbero preso spunto dal capolavoro di Ridley Scott.