Bon Iver: “i,i”, dall’universale al particolare

i,i” è il quarto album in studio dei Bon Iver, frutto ancora una volta del genio di Justin Vernon, coadiuvato dal resto della band e accompagnato nella sua visione sonora da artisti del calibro di James Blake, Moses Sumney, Aaron e BryceDessner (The National).

Pubblicato con anticipo rispetto alla data prevista del 30 agosto, ad un ascolto iniziale del disco, assecondando un’analisi alternativa, ho subito avuto un’idea chiara, netta ed unitaria di “i,i”: Bon Iver si è trasformato in uno chef molecolare. Mi spiego meglio.

Mi piace immaginare che “For Emma, Forever Ago” sia paragonabile per Vernon a quella che per un cuoco talentuoso, ma al primo importante incarico, è la creazione del suo menù di presentazione: la qualità delle materie prime, il gusto nel combinarle tra loro, l’armonia tra i sapori e la perfetta tecnica tra i fornelli sono legati, in quel caso, anche al bisogno di ottenere qualcosa sì d’effetto, ma anche apprezzabile dalla maggior parte dei palati, costruendo una reputazione graduale ed omogenea nel rispetto dell’arte classica della cucina.

Passano gli anni (quattro, per la precisione), il primo ristorante è ormai un punto di riferimento per molti amanti della cucina ricercata e Bon Iver espande i suoi orizzonti: Perth, Minnesota, Calgary, Hinnom sono tutti luoghi/non luoghi in cui Vernon ricerca idee, influenze, pietanze nuove da offrire al suo pubblico. Un menù fusion, in cui i sapori di Gerusalemme vengono rivisitati in chiave texana e le tradizioni culinarie della comunità di Oak Grove si fondono con quelle del Wisconsin. Ancora una volta l’intuizione di Bon Iver ha fortuna, venendo l’omonimo ristorante acclamato tanto dalla critica di settore, quanto da un’ampia fetta di pubblico.

Ma Justin Vernon non è uno chef da TV On-Demand, da pubblicità, non ha iniziato a praticare la professione per scrivere un bestseller di ricette. Vernon sfiletta a mani nude, senza guanti, spezza le erbe aromatiche ad una ad una, cogliendone la maestosità del profumo puro. Ogni membro della cucina di Bon Iver è mosso dalla continua ricerca, dalla trasformazione e dalla ricomposizione. Il bisogno di arrivare all’origine, al perché, è qualcosa che da sempre è insito nell’essere umano: alcuni lo ricercano per tutta la vita, altri ne sono spaventati. Quella stessa paura mista a confusione che ha pervaso molti degli avventori del ristorante “22, A Million”, quando le pietanze cucinate dallo chef Vernon esplodevano all’interno del palato, rivelando sapori sconosciuti e difficilmente comprensibili. Era questa la fine di Bon Iver? Si era forse spinto troppo oltre?

Sta finendo il 2016 e, mentre su tutti i canali spopolano Masterchef e figli, in cui sedicenti maghi dei fornelli ripropongo grandi classici in stile Nouvelle Cuisine, Vernon e Bon Iver sono ad un bivio: fare un passo indietro, in una seppur personalissima comfort zone culinaria oppure scavare ancora più a fondo, scoprendo la vera essenza di ogni materia utilizzata, scomponendola e valorizzandola al massimo in modo del tutto nuovo, al confine tra istinto e scienza?

Non un fallimento ma ciò che più si avvicina a una bocciatura, un rimando al prossimo appello, ma che spesso diventa un impulso ancora più determinante per il raggiungimento dei propri obiettivi. Vernon si rimette a studiare, setaccia al microscopio ogni molecola del suono, scomponendo le macro categorie musicali universalmente riconosciute in frammenti più piccoli, tasselli di un mosaico all’apparenza molto simili tra loro ma con specifiche caratteristiche organolettiche, pronte ad essere lavorate in modo totalmente nuovo rispetto al “conosciuto”.

Sono passati tre anni dall’ultima fatica compositiva e finalmente, l’8 agosto 2019 Vernon è pronto a presentare al pubblico il suo nuovo menù, composto da tredici portate. L’antipasto, “Yi” (che singolarmente potrebbe essere interpretato come un “Why I” – “Perché io” – con o senza punto di domanda) è servito su cucchiaino riempito da minuscole sfere contenenti la base molecolare di tutte le pietanze che stanno per essere servite. “iMi” è il primo piatto, una pressurizzazione di gospel nero arricchita da globuli di jazz pronti ad esplodere all’interno del palato, qua e là; “We” è una densa crema arricchita da bacche ed erbe aromatiche provenienti dal Delta del Mississippi in sospensione, così da risultare subito riconoscibili fin dal primo assaggio.

“Holyfields,” “Hey Ma” ed “Sh’Diai” sono una variazione di “iMi”, impreziosite da emulsioni di elettronica, pop contemporaneo e sassofoni, perfettamente dosate. “U (Man Like)”, “Marion” e “Salem” ripropongono un grande classico della musica americana, in cui Temptations e Platters vengono cucinati insieme a funk e soul, cotti senza fiamma.

“Jelmore” è la gelificazione di un addio liquido, la solidificazione di qualcosa destinata all’inesorabile assorbimento, ma adesso impossibile da metabolizzare, se non mordendola. A farle da contraltare “Faith”, polverizzazione di folk d’oltreoceano, in cui anche la batteria subisce un processo di sintesi granulare, venendo distorta del tutto proprio nel momento di sua massima espressività, catturando l’essenza del suono e non la forma.

Per apprezzare “i,i” bisogna proprio prendere spunto da quest’ultima frase, godendo della natura primordiale delle materie piuttosto che della forma. La stessa forma che vorrebbe il Si Bemolle come ultima nota di chitarra su “RABi” – brano finale del disco – a chiusura dell’opera. Ce lo aspetteremmo nella forma, ma non c’è. C’è nella sostanza, quasi impercettibile, con il suono digitalizzato dei winds a chiudere, proprio su questa nota. La quadratura di alcuni cerchi, l’apertura di altri, nell’avvicinarsi ai cancelli dell’essenza, in un mondo di forma. Una realtà parallela in cui è possibile saziare l’anima ed il corpo con l’arte.