“Squallor”, l’ottavo disco da solista di Fabri Fibra, esce così, nella notte, annunciato da un semplice tweet, con una modalità simile a quelle adottate di recente da Beyoncé e Kendrick Lamar. E come un classico “sucker punch”, il pugno a sorpresa che se colpisce il diaframma lascia la vittima senza fiato, colpisce duro e sporco. Nelle diciotto (ventuno nella versione digitale) tracce dell’album, Fibra si diverte a fare il piromane dando fuoco a tutto e tutti, compreso il proprio ego. Dalla sobria apertura di “Troie in Porsche” fino a “Sento Le Sirene” il rapper di Senigallia, che da un po’ di anni a questa parte ha preso una strada a sé rispetto a quella “scena hip hop italiana” che ha contribuito a creare, si scaglia contro lo squallore del Bel Paese, lo squallore del rap tricolore, della fama, dei critici e tutto sommato anche degli ascoltatori. Ma l’antitesi è costitutiva di questo artista a suo modo unico nel panorama nostrano: così come nel suo disco precedente parlava di “Guerra e pace”, in questa sua prova più recente lo squallore non lo prende soltanto di mira, ma ci sguazza. Se tutti pensano ai soldi, anche lui non disdegna, come rimarca in “E.U.R.O.” assieme al suo compagno di “Rapstar” Clementino. La scena hip hop la prende a schiaffazzi ne “Il Rap Nel Mio Paese”, ma allo stesso tempo si accompagna ad alcuni dei suoi esponenti più emblematici, vedi Gue Pequeno in “E Tu Ci Convivi”. Con lo squallore Fabri Fibra ci gioca e riesce a uscirne indenne, come sempre a modo suo.
Certo, quando dici esplicitamente che il 99% della scena rap è fuffa e implicitamente ti inserisci in quell’1% di valore, o meglio ancora te ne chiami fuori per non sporcarti le sneakers con la merda, puoi sembrare un filo arrogante. Ma il lato triste della situazione è che – e non necessariamente per merito di Fibra – quest’affermazione si avvicina molto al vero. In ogni caso, ciò in cui “Squallor” è una spanna sopra rispetto ai dischi hip hop usciti negli ultimi anni in Italia, è il livello della produzione (del resto qui sono chiamati in balla produttoroni come Medeline, Dot da Genius e Amadeus). L’elettronica acida, spigolosa, a tratti ipnotica che si dispiega per i diciotto brani del disco non fa concessioni a caramellature pop per adattarsi alle orecchie dell’ascoltatore medio(cre). E “il Fibradelico” ci scivola sopra con maestria, con rime che spaziano dallo sgrezzo dritto al punto al simil-dadaista, concedendosi di tanto in tanto lo spazio per un virtuosismo o due. E di nuovo emerge la duplicità di Fibra: tanto le basi quanto i suoi versi sono curati con minuzia, ma danno comunque l’impressione di essere stati buttati lì un po’ per caso, sul momento. Un po’ come lo sfogo di un pazzo che bercia apparenti nonsensi a un angolo di una strada, ma poi se ci fai caso tra uno sproloquio e l’altro ci infila una serie di verità inaspettate.
Tanti i featuring, non tutti strettamente necessari: si va dal già citato Gue Pequeno e Marracash (“Playboy”) fino alla coppia “Machete” formata da Salmo e Nitro (“Dexter”), passando per Clementino e l’ex Truce Boy Gel (“A volte”). Ma il più azzeccato di tutti è senza dubbio quello con l’mc franco-congolese Youssoupha, che assieme agli scratch di Dj Double S aiuta Fibra a confezionare il pezzo più potente dell’album con “Rock That Shit”. E non mancano ovviamente le frecciate o i riferimenti a colleghi. Ne “Il rap nel mio paese” Fabri Fibra tira in causa l’ex amico Vacca, anche se con toni più concilianti di quanto il loro celebre dissing potrebbe far immaginare, e soprattutto Fedez, responsabile di avere parlato male di Fibra durante X Factor 8, ma anche di essersela presa con Paola Zukar, manager di Fabri e di Marracash, nel suo ultimo album “Pop-Hoolista”: “Odio i rapper banali, chi li produce e chi li segue. Dieci in comunicazione, non uso mai l’inglese, ora faccio un’eccezione: fuck Fedez”. E su questa rima potremmo anche chiudere.
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