“Guilty pleasure”: espressione inglese traducibile con “passione segreta”, anche se come spesso succede per molti termini britannici, in italiano si perde parte del significato, in questo caso l’accezione della colpa. Parlando per immagini, un “guilty pleasure” è la sigaretta fumata di nascosto quando hai detto a tutti di aver smesso o il bombolone alla crema fagocitato in solitudine quando sei a dieta. Tutto questo per dire che Justin Bieber è il mio “guilty pleasure” e che “Purpose”, il quarto album della popstar canadese, è piacevole e dà dipendenza tanto quanto i due vizi sopracitati. Ma penso lo sia anche per molti altri, dato che quasi la metà dei pezzi contenuti in questa nuova release (singoli e non) sono finiti in top 40 in contemporanea, facendo fruttare al ventunenne un nuovo record.
Dal 2012, anno di pubblicazione di “Believe”, album che ha segnato la svolta della maturità (se non altro anagrafica) del cantante, ne sono successe di cotte e di crude: denunce, arresti, eccessi, e amenità varie. Ma dopo la tempesta, il buon Justin è riuscito a prendere in mano le redini della sua vita, con un repentino quanto sorprendente avvicinamento alla religione, e ha dato alle stampe un album che sa tanto di ammissione di colpa e lavaggio di coscienza, anche se risulta infinitamente meno noioso. A partire dal titolo, “Purpose”: lo scopo di Bieber, a sua detta, è ispirare e motivare gli altri, pensando che in fondo, se ce l’ha fatta lui, possono farcela tutti. Prima di arrivare alla musica, è impossibile non citare il meticoloso e per una volta intelligente lavoro di promozione sui social, sia di lancio del primo singolo, “What Do You Mean?” (con un countdown che ha coinvolto diverse celebrity), che dell’album stesso (con una serie di immagini di graffiti sparsi per tutto il mondo ispirati ai titoli dei nuovi brani). Ottimo modo per accrescere l’hype, così come l’idea (top secret fino all’ultimo secondo) di “Purpose: The Movement”, short film pubblicato per intero su Vevo, che comprende tredici clip ispirate a ognuna delle canzoni di “Purpose”.
Ma veniamo al contenuto. Fin dall’accenno di calypso di “What Do You Mean?” e dalla tropical house di “Sorry”, i primi due singoli estratti, si intende che il canadese ne ha le tasche ben piene del teen pop. La scuderia Def Jam (dice qualcosa il nome Rick Rubin?), oltre che Skrillex e Diplo, in azione congiunta a partire dal tormentone della scorsa estate “Where Are Ü Now”, calcano pesantemente la mano, e ben venga: la vocetta zuccherosa di Bieber si sposa alla perfezione sia con l’elettronica più dreamy di “I’ll Show You” che con quella più danzereccia di “Children”. Sì, c’è anche un featuring della ormai ubiqua Halsey in “The Feeling”, così come di Big Sean e Travi$ Scott (rispettivamente in “No Pressure” e “No Sense”) negli episodi più dannatamente R’n’B del disco, ma l’(ex?) bad boy del pop riesce a trovare spazio per le sue già citate apologie nella ballad voce e piano “Life Is Worth Living” e strizza furbescamente l’occhio alla musica leggera di qualità con “Love Yourself”, in cui fa capolino la criniera rossa di Ed Sheeran.
“Purpose” è l’inizio di un nuovo capitolo: ovvio che starà a Bieber rimanere sui binari (musicali e non) e continuare a far vedere di che pasta è fatto, magari impegnandosi di più anche in sede live. È altrettanto ovvio che non sia il caso di gridare al capolavoro ma nel panorama della musica pop contemporanea “Purpose” è un prodotto finemente confezionato in ogni singolo dettaglio, e nonostante questo, gradevole e immediato. Easy listening, sì, ma la voglia di leggerezza in un momento storico in cui c’è poco da scherzare, è un diritto che non ci può togliere nessuno.