Kitsune – Nothing Makes Me Happy Anymore
Nonostante il nome e la fascinazione verso l’Estremo Oriente possano far pensare a tutt’altro, i Kitsune sono una giovane band canadese al debutto discografico con “Nothing Makes Me Happy Anymore”. Per darvi le coordinate di base, siamo in territorio melodic metalcore/post-hardcore sfumato di emo/screamo. La formazione ha sicuramente il dono della sintesi, sforando di poco la mezzora di running time e riuscendo per questo a mantenere alta l’attenzione dell’ascoltatore. Altra nota positiva, i vocals di Kurtis Lloyd, perfetto sia nello screaming (“Not My Home”) che nelle ballad (“Electrifying Love”).
Obsequiae – The Palms of Sorrowed Kings
Recuperiamo colpevolmente un album che ha riscosso parecchio successo di pubblico e di critica nelle ultime settimane del 2019. E in effetti, “The Palms of Sorrowed Kings”, il terzo disco degli Obsequiae, merita tutti gli elogi che si è conquistato grazie al suo melodic black metal tinto di folk e alle sue decadenti atmosfere tardo medievali (sarebbe meglio parlare di “castle metal”, una definizione coniata dal combo stesso). Ascoltate “Asleep in the Bracken” e chiudete gli occhi: non vi sembra di essere con la mente in quel castello in rovina sulla copertina?
The Acacia Strain – It Comes In Waves
“It Comes In Waves” degli Acacia Strain è il simbolo di un’evoluzione avviata da anni dal metalcore/deathcore degli inizi verso le selve oscure del doom/sludge, pur senza tradire le proprie origini. Il nuovo EP dei Nostri è costituito da sette pezzi che idealmente compongono un unico lunghissimo brano dal titolo “Our Only Sins Was Giving Them Names”. Un bel lavoro e senza dubbio molto più solido del precedente full-length “Gravebloom”, ma è tutto già scritto (e già sentito, anche dagli stessi Acacia Strain).
Teeth – The Curse of Entropy
“Esprimiamo il nostro odio attraverso una dissonanza viscerale”. Si presentano così i californiani Teeth, giunti oggi alla seconda fatica in carriera con “The Curse of Entropy”, che arriva a cinque anni di distanza dall’interessante debutto “Unremittance”. 30 minuti non stop di aggressione frontale senza un attimo di pace e un’intensità costante fino agli ultimi secondi dell’album, per un tech-death dissonante (appunto), rabbioso e brutale (prendete solo la doppietta “Husk” e “Wither” per farvi un’idea).
Bring Me The Horizon – Music to Listen To~Dance To~Blaze To~Pray To~Feed To~Sleep To~Talk To~Grind To~Trip To~Breathe To~Help To~Hurt To~Scroll To~Roll To~Love To~Hate To~Learn To~Plot To~Play To~Be To~Feel To~Breed To~Sweat To~Dream To~Hide To~Live To~Die To~Go To
Diciamo la verità: ai Bring Me the Horizon il coraggio sicuramente non manca. A partire dalla scelta del titolo di questo ultimo lavoro, fino all’annuncio della pubblicazione da un giorno all’altro, in un periodo dell’anno in cui l’attenzione di gran parte del mondo è rivolta ad altro. Detto questo, “Music to Listen To…” è l’ennesimo statement della formazione britannica, che dopo essersi strappati di dosso la tanta odiata etichetta metal (con “Amo”, che però si aggrappava ancora a qualche sparuta struttura heavy, seppur prendendola in giro selvaggiamente e senza motivo), ora la calpestano seppellendola (lei e il resto della band esclusi Oli Sykes e Jordan Fish) sotto palate di elettronica, drop, ospitate illustri e flussi di coscienza del frontman (vedi i quasi venti minuti finali di “Underground Big”). Sperimentazione fine a se stessa.