Make Them Suffer – Worlds Apart
“Worlds Apart” è la colonna sonora di un film ambientato in un mondo a se stante (appunto), sospeso tra passato e futuro, suggestioni e violenza. I Make Them Suffer continuano a fare la spola tra deathcore e metalcore, abbandonandosi in questa nuova release ai più confortanti lidi della melodia e dell’elettronica, guidati anche dai clean vocals della nuova tastierista Booka Nile e con una direzione ben precisa in testa. Imperdibile per chi ha voglia di immergersi in atmosfere da sogno, senza mai però perdere di vista la terra ferma.
Sleep Token – Two EP
Io li odio gli Sleep Token. È già la seconda volta che mi torturano con un EP stupendo, ma appunto un EP. Tre canzoni. Magnifiche per carità, ma solo tre. E non si sa neanche chi si celi dietro la maschera di questi misteriosi musicisti (nonostante sia sempre più propensa a credere che si tratti di facce a noi già note). In ogni caso, “Two” è esattamente come “One”: la colonna sonora perfetta della serenità, in salsa djent simil-Tesseract (ma anche simil-Deftones e simil-Bon Iver, per dirvi quanto gli ST siano eclettici). Però se mi fate ancora un EP al prossimo giro mi spazientisco sul serio. Forse.
Oceans Ate Alaska – Hikari
Finalmente posso dirlo: quello degli Oceans Ate Alaska non è il solito metalcore. Prima di tutto, per l’inusuale quanto gradevole ispirazione giapponese che permea “Hikari” fin dal titolo, per arrivare anche all’utilizzo di strumenti tipici della tradizione del Sol Levante. In secondo luogo, perché il nuovo disco degli OAA è solido e compatto nonostante le mille sfaccettature, che a un primo ascolto possono dare idea di poca coerenza, ma crescendo con il tempo riesce ad essere convincente sia nelle linee melodiche più dolci che negli scatti d’ira più furiosi.
Igorrr – Savage Sinusoid
Devo ammetterlo, trovare un senso nel delirio degli Igorrr è stato tutt’altro che semplice. Il loro genere si potrebbe riassumere in “zingarocore” (guardatevi il video di “Cheval” e capirete), ma se vogliamo dilungarci il sound del combo francese comprende breakcore, death e black metal, lirica, elettronica, techno, reminiscenze barocche e chi più ne ha ne metta. Ah, e c’è anche Travis Ryan dei Cattle Decapitation ospite in tre brani. Insomma, il segreto dell’approccio corretto a “Savage Sinusoid” sta nel leggerlo come un puro divertissement, ma realizzato da artisti che sanno perfettamente il fatto loro.
Impure Wilhelmina – Radiation
Tra Pallbearer e Elder il doom metal sta vivendo un vero momento d’oro. Se a questi nomi ci aggiungiamo gli Impure Wilhelmina abbiamo la Trinità Doom del 2017. Gli svizzeri, giunti oggi al sesto lavoro in carriera con “Radiation”, si fanno notare in quanto riescono a ficcare nella cupezza generale un tono post-hardcore mica male (vedi “Sacred Fire”), conferendo a questa opera un’impronta unica e distinguibile anche nelle profondità melmose di un genere che, almeno solo all’apparenza, non brilla(va) per originalità.
Shattered Sun – The Evolution of Anger
Non me la sento di blastare i Shattered Sun. Va bene, fanno melodic metalcore, roba che i Bullet For My Valentine facevano già una vita fa, ma lo fanno bene, senza neanche esagerare con la sdolcinatezza e i breakdown. Il secondo full-length del sestetto texano, pur non essendo niente di spettacolare, non è neanche osceno o stucchevole, anzi, è ben costruito e più che orecchiabile. Sicuro non riscriverà la storia, ma (almeno) un play se lo merita.
Rings Of Saturn – Ultu Ulla
A differenza di molte band di ispirazione tech death, i Rings Of Saturn hanno la qualità di prendersi poco sul serio. E di conseguenza, non risultano prolissi e spocchiosi, ma estremamente spassosi. Sarà che appunto i Nostri si limitano a strizzare non uno ma entrambi gli occhi ai tecnicismi, pur rimanendo con i piedi ben fermi nel deathcore, sarà il modo in cui riescono a gestire il caos galattico e le melodie fantascientifiche, ma “Ultu Ulla” è un’opera divertente come ce ne sono poche in giro, almeno nel suo genere.
Cønstantine – Esthesia
In molti paragonano i Cønstantine ai Protest the Hero, anche se in “Esthesia”, il loro ultimo disco, si avvicinano a sfiorare pericolosamente i Muse (“Dragon”). Un ottimo e variegato progressive metal, con in aggiunta il cantato power del vocalist Lassi Vääränen, piacevole anche per chi di power non ci vive tutti i giorni. Un lavoro all’apparenza semplice e leggero, ma pieno all’inverosimile di rimandi e finezze nascosti dove meno te lo aspetti. Tipo sotto le pieghe “pop” di una “Human Veil”.
DED – Mis-An-Thrope
Possiamo tranquillamente dire che “Mis-An-Thrope”, il debutto dei DED, sia un compendio di quanto sia successo dal 1998 ad oggi in una certa nicchia. E possiamo anche dire con altrettanta certezza che il 2017 è ufficialmente l’anno del revival nu-metal più spinto. La band dell’Arizona (e non solo loro) omaggia al limite del plagio Korn e Slipknot, sbocconcellando qua e là influenze più recenti alla Bring Me The Horizon. Se volete divertirvi senza impegno, date un ascolto a questo disco.
Scale The Summit – In A World Of Fear
Nuova line-up e nuovo lavoro per i Scale The Summit, che dimostrano il desiderio di non volersi fermare di fronte a nulla, nonostante tutto. “In A World Of Fear” è un buon album strumentale, in cui la band si diverte a sperimentare esplorando gli affascinanti ma rischiosi meandri del progressive metal, con una tecnica brillante ma mai ridondante. E meno male, perché 40 minuti di disco sono il limite massimo di sopportazione.
Manafest – Stones
Ottavo (!!!) full-length per il canadese Chris Greenwood aka Manafest, uno dei pochi sopravvissuti della deriva “Christian rap-rock”, che tanto la faceva da padrona qualche tempo fa. Il Nostro ha gusto e si sente (“House of Cards”), ma in questo “Stones” è più concentrato a trovare il refrain radiofonico perfetto (e ogni tanto ci riesce, vedi “You’re Gonna Rise” e “Merry Go Round”) che a sfornare lyrics di qualità, tirando fuori per lo più inni da oratorio (per rimanere in tema) orecchiabili ma niente di più.
Callejon – Fandigo
Arrivati al settimo lavoro in carriera, i Callejon sono una vera e propria istituzione del metalcore tedesco. Ma nonostante questo, devono ancora decidere che strada prendere, perché in “Fandigo” ci sono mille deviazioni dal percorso, anche interessanti, ma non del tutto chiare. Non è solo questione del cantato un po’ in inglese e in tedesco (o uno o l’altro, non tutti e due, dai), ma anche delle suggestioni electro-pop, anni ’80 (vedi la cover di “People Are People” dei Depeche Mode) e dei pestoni casuali. Insomma, la carne al fuoco è davvero troppa, e si rischia una bella indigestione.