Originario di Toronto, Ryan Driver ha dalla sua un buon numero di collaborazioni e produzioni, tra cui si ricorda soprattutto “Feeler Of Pure Joy”, disco d’esordio datato 2008 che, più o meno universalmente, aveva riscosso un discreto successo tra critica ed addetti ai lavori.
La commistione di folk, rock e psichedelia, che poteva risultare ostica e straniante agli esordi, ora è stata digerita anche dallo stesso cantautore che quindi, avendone la più completa padronanza, è in grado di utilizzarla e stravolgerla per produrre un disco di ballate melanconiche da spiaggia più falò più cielo stellato più dolce compagnia. Driver si abbandona alle melodie tanto quanto dovrebbero abbandonarsi l’orecchio e la mente dell’ascoltatore e viaggiare, viaggiare e viaggiare; non importa se si rimane chiusi tra quattro mura ed è la fantasia la compagna di viaggio oppure si stia realmente percorrendo una di quelle suggestive autostrade infinite con annesso scorcio sul mare, “Who’s Breathing?” è l’ideale per chi intende prendersi una piccola pausa dal mondo che lo circonda e compiere un piccolo viaggio dentro di sé.
L’apertura di “Dead End Street”, ottima ballata folk rock, è sostenuta da pezzi come “Tell Me True”, “Blue Skies Don’t Care”, la fresca “Everything Must Spin” e, soprattutto, la chiusura “On A Beautiful Night Like Tomorrow”; mai pezzo avrebbe potuto essere più azzeccato come conclusione dei circa quaranta minuti in compagnia di Ryan Driver, con un assolo elettrico in assoluto contrasto con il pianoforte in sottofondo quasi a creare un’atmosfera surreale e riproducibile solo attraverso l’ascolto di quelle stesse, e sole, note.
Ryan Driver sta camminando, a piccoli passi, verso la consacrazione oltre che verso l’allontanamento da quella che potrebbe sembrare una nicchia in cui la sua musica potrebbe stagnare quasi fosse semplicemente un mero oggetto di culto. Il grande salto è sempre più vicino e il continuo moto perpetuo, spinto dalla complessità creativa dell’autore stesso (motore di “Who’s Breathing?”), alla ricerca di nuove sonorità e commistioni tra stilemi appartenenti a generi differenti (inutile non citare la forte impronta jazz presente in tutto il lavoro), non potrà che essere d’aiuto.
Federico Croci