Con “Ghost” si conclude la tetralogia del Devin Townsend Project. Secondo i comunicati questo doveva essere il disco più soft, quasi ambient del lotto. E le promesse non sono disattese, “Ghost” è morbido, vellutato, liquido, etereo e impalpabile come il titolo fa presagire, pur non rinunciando a delle incursioni più ritmate in ambito rock, folk, pop e neo folk.
Non si faccia l’errore di considerarlo un disco leggero e semplice, perché non lo è. I brani sono ricchi di dettagli e sfaccettature, spesso inafferrabili nella loro essenza ed è necessario più di un ascolto per poterne godere in profondità. Ovviamente si tratta di musica leggera, ma non per questo è musica banale. E poi, se non avete voglia o tempo di approfondire, non preoccupatevi, perché “Ghost” può essere anche un perfetto album da sottofondo.
Arrivati alla fine del progetto, è anche il caso di tirare qualche somma. Ricapitoliamo, abbiamo “Ki“, il disco caldo del groove, del funk, del coraggio; segue “Addicted“, il capitolo pop easy; poi “Deconstruction” e il suo furore metallico e il suo delirio compositivo; chiude “Ghost”, la riflessione, il riposo. Servivano 4 dischi? Sicuramente no. Probabilmente sarebbe stato sufficiente un doppio album in cui condensare le buone idee presenti nei 4 capitoli senza ulteriori, inutili prolissità, sicuramente tutto sarebbe potuto essere messo meglio a fuoco. In effetti quasi tutto è sempre migliorabile ma questo non cancella il valore di un artista che, genio vero o presunto, ha il coraggio di osare, di giocare con le note e di mettersi a nudo.
Stefano Di Noi