The Rural Alberta Advantage – Departing

In “Jennifer’s Body”, uno degli ultimi film con Megan Fox (peraltro bruttissimo, evitatelo come la peste se non v’è già capitata la sfortuna di sorbirvelo; e tranquilli, il ‘corpo’ di Megan non è che sia molto valorizzato), il leader di una band satanista dedita ad un dolce ed intimista indie – rock (non si tratta dei soliti metalloni, unico colpo di genio della sciatta pellicola), prima di compiere un sacrificio umano si giustifica così di fronte alla futura vittima (vado a braccio, ma il senso è quello): “Tu non hai idea di quanto sia difficile sfondare oggi suonando indie – rock!”.

Noi però ne abbiamo idea eccome! Nell’ultimo decennio il fiorire di gruppi che suonano questo genere, preso in senso lato e in tutte le sue sfumature, è stato talmente mostruoso che ora si è arrivati a livelli quasi ridicoli. E soprattutto, quello che la stampa innalza a fenomeno messianico nel giro di pochi mesi, spesso viene affossato e dimenticato altrettanto velocemente.

È il caso del trio in questione, i canadesi Rural Alberta Advantage (ma ora si sono spostati a Toronto, da cui il titolo dell’album). Il loro esordio di tre anni fa, “Hometowns”, fu talmente celebrato che nel giro di un anno venne ristampato dalla Saddle Creek e Pitchfork gli appioppò un bell’8, scomodando paragoni con Neutral Milk Hotel (questo per la verità pertinente, a livello vocale la somiglianza è notevole), Bright Eyes e Arcade Fire. Era nata una stella (l’ennesima)? Pare proprio di no. Infatti “Departing” è già uscito da quasi due mesi e nessuno ne ha parlato granché bene. Sembra che l’hype cresciuto intorno ai Nostri sia evaporato nel giro di un battito di ciglia.

E in effetti non si può biasimare chi ha avanzato dei dubbi su questo lavoro. In sé il disco non è del tutto malvagio: si tratta di una discreta collezione di canzoni dolci ed intimiste, appunto, con un tocco pop che non guasta mai. La voce solista di Nils Edenloff è davvero ‘rurale’, ruvida e personale, e a coadiuvare lui e la sua chitarra, prevalentemente acustica, ci pensa il continuo frullare della batteria di Paul Banwatt e l’organo quasi shoegaze di Amy Cole, che occasionalmente si occupa anche dei cori. Si passa dal puro folk di “Two Lovers” all’indie – pop energico di “The Breakup” e a quello più etereo e sofferto di “Under The Knife”, dal rock vicino ai Veils di “Muscle Relaxant” alla ballad sognante di “North Star” (massiccio qui l’uso dell’organo) e alle accelerazioni batteristiche di “Stamp”, etc. Ma su tutto cala una patina di normalità che non aiuta certo i RAA a imporsi all’attenzione. Nel complesso quest’opera pare un “Hometowns” parte seconda, un po’ più rifinito e ‘professionale’ ma anche meno mosso e più monolitico. Non si assiste alla nascita di nuove idee in grado di far sviluppare alla formazione uno stile davvero personale. E pochi, pochissimi sono i guizzi davvero degni di nota.

È ovvio che, quando si parla di hype riferito ad act di questo tipo, lo s’intende sempre riferito a una dimensione ridotta, underground. Niente a che vedere con colossi dell’indie quali possono essere R.E.M. e pochi altri. Tuttavia questo modo di fare è indicativo di una tendenza che è diventata insostenibile. Meditino i critici à la page, prima di gridare al miracolo di fronte all’ennesimo debutto dell’ennesimo gruppo con chitarrina semiacustica, graziosi arrangiamenti dolci ed intimisti e un po’ di bravura al di sopra della media, ma che ha ancora tutto da dimostrare.

Stefano Masnaghetti

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