Myles Kennedy – Year Of The Tiger

Finalmente Myles Kennedy esce dal doppio utero accogliente e protettivo delle ingombranti figure (paterne?) di Mark Tremonti e Slash e lo fa con un album che omaggia l’amore e decanta la mancanza e la perdita. Non siamo di certo qui per sciorinare psicologia spiccia, ma Myles dimostra amore e convinzione, positività di espressione sia nelle parole che nelle note quando affronta le figure femminili della sua vita, dalla madre alla moglie Selena (evidenziata in verde nei credits dell’album). Boa di sicurezza l’una, musa salvifica l’altra. Tutto si fa più meravigliosamente cupo e sofferto quando invece si affronta l’altra figura, quella del padre, che invece è venuta a mancare quando l’artista era ancora bambino.

Ciò che ci dice il sound e l’artwork di “Year Of The Tiger” è di avere tra le mani una retrospettiva (colori in bianco e nero) e una situazione intimista, rappresentata dalla sola figura di Myles in campo nero imbracciando un unico e solo strumento, una chitarra acustica.

Quello che poi emerge ascoltando nel dettaglio le dodici tracce è la materializzazione di una delusione di chi credeva e si aspettava (come me) un ritorno alle atmosfere Buckleyane dei Mayfield Four, sua prima band degli anni ’90. Questo album racconta un Myles che vince e non quello che allora perdeva. Le sue esperienze con Alter Bridge e Slash sono qui spesso citate ed esaltate con svolte che concedono alla sola cultura del rock & roll classico, quello del folk americano e del blues. Radici e alternative rock.

Così aleggia l’ombra imponente e scura del songwriting di Mark Tremonti e dei suoi Alter Bridge in ballate drammatiche e ricche di potere soggiacente come “The Great Beyond”  e “Nothing But a Name”, mentre l’esperienza Slash emerge nell’immediatezza piacevole di “Songbird” , “Ghost Of Shangri La” e “One Fine Day”.

Interessanti gli omaggi al blues di “Blind Faith” al folk di “Turning Stones” e “Mother”, mentre di certo spicca su tutte la canzone in cui vediamo più Myles che in tutte le altre, la bellissima ed emozionante “Love Can Only Heal”.

Come primo passo senza rete di sicurezza Kennedy convince e rischia poco o niente. Ascoltiamo questo “Year Of The Tiger” con piacevole serenità consci del fatto che il prossimo album dovrà essere più intimo, più rischioso. Un altro di questo genere non solo sarebbe inutile e deludente ma offuscherebbe anche quel che di buono c’è in questo esordio solista, perché instraderebbe la sua carriera su un binario di  manierismo convenzionale che proprio non gli appartiene.