Non si parla più di musica. Non si parla più di arrangiamenti, strutture, scelte stilistiche e produzione. Non si parla più di sound, di strumentazione, di tonalità, tecnica o di abilità esecutive. Non si parla più nemmeno di presenza scenica, di amalgama di una band, di capacità strumentali, di ritmi, testi e canzoni.
Non lo fanno più gli artisti in primis, parlano troppo e di altro. Non lo fanno i giornalisti musicali, che sono però attivissimi sui social. Non lo fanno tanto meno i fan, che sbraitano senza sosta l’uno contro l’altro.
Non lo fanno gli artisti. La loro attività principale (specialmente quelli di casa nostra, rimanendo in un ambito temporale ristretto) non sembra essere più quella di suonare o di fare promozione ai propri tour o ai progetti prettamente musicali. Meglio cercare il flame social. Provocandolo o, meglio, costruendolo partendo da qualche dichiarazione o direttamente da una storia su Instagram, o ancora da un post su Facebook.
Di più. Molto spesso le dichiarazioni arrivano a caso, tirando in ballo magari artisti internazionali dallo spessore artistico clamorosamente superiore e dall’importanza storica innegabile. Le pagine Facebook di siti musicali (e non) da lì in poi fanno il resto. Fioccano migliaia di commenti (e di visualizzazioni di preroll video se va bene, o di banneristica venduta in programmatic se va peggio), e quando sembra esaurirsi la vena polemica sbam, ecco la risposta altrettanto a caso di altri artisti tirati in ballo dal primo che fa ripartire la giostra. E si ricomincia.
Tre anni fa il dissing tra Vacca e Fibra almeno era divertente e aveva prodotto dei pezzi niente male. Da allora tutto sembra (sembra?) studiato a tavolino, perfettamente architettato per far parlare di sé e mantenere accesa la luce della ribalta anche quando questa farebbe meglio o a rimanere spenta, oppure a essere puntata su nuove produzioni discografiche o tour in partenza.
Non lo fanno i giornalisti musicali. Gli editori in generale hanno sempre meno bisogno di analisi e critica vera, preferiscono visite facili e immediate, ergo sono anche ben felici che le proprie firme si spendano in crociate e uscite volutamente provocatori. Sono pochissimi quelli che riescono a non dover scrivere di certe dinamiche. Anche se poi sono magari i primi a voler cercare il titolo polemico o strillato anche nel 2017.
C’è poi un altro problema. Il critico musicale studia, analizza, interpreta e propone la propria visione sui vari aspetti interpretativi della forma d’arte popolare per antonomasia. Alla base però, oltre alla professionalità, alla preparazione e all’onestà intellettuale, deve esserci l’incontrovertibile constatazione della realtà. Se un concerto è mezzo vuoto non è sold-out. Se dal vivo un’artista stecca su ogni pezzo non è capace. Se il pubblico è composto da ragazzi delle medie non può essere eterogeneo. Se un cantante vende non è automaticamente valido dal punto di vista artistico, funziona commercialmente ma non vuol dire faccia buona musica.
Dal momento in cui queste cose non si possono più dire, diventa inutile l’esercizio della professione stesso. Ed è normale quindi che chiunque possa sentirsi in diritto di fare il critico musicale in base ai like che raccoglie piuttosto che agli eventi a cui presenzia, senza magari capire che un concerto fatto in playback non è un concerto.
Non lo fanno i fan. Anche perché non ci sono più fan che ascoltano allo sfinimento un disco fino a consumarne il nastro su cui è inciso. Ascoltano singoli, featuring e sanno a memoria i ritornelli dei pezzi che passano le radio. Per loro non è una questione di emozioni, è questione di appartenenza a un branco che difende (spesso da non-fan di altri) il proprio artista del momento. Che cambierà inevitabilmente nel giro di qualche anno. Per il quale spenderanno soldi per un meet and greet per avere la foto da mettere su Instagram, a cui sperano di associare il cuoricino messo dal(lo staff del)l’artista stesso.
Sei mesi o un anno di popolarità. Poi il dimenticatoio assoluto. Non serve fare nomi, gli artisti da talent continuano a fare altri talent anni dopo. Pochissimi riescono a fare due tour consecutivi nei palazzetti (riempiendoli davvero). E quei milioni di like che inizialmente sembravano fan valgono meno di quanto credevamo.
Tutto questo a cosa porta? Al non ascoltare più musica, al considerare canzonette quali simboli di un’epoca, alla rappresentazione goliardica e cialtrona (alimentata spesso dagli operatori stessi) di un mestiere affatto semplice da apprendere ed esercitare, alla fruizione ultra-superficiale dell’arte delle sette note e infine, in alcuni casi, a una vera e propria distorsione della realtà. Inoltre è davvero avvilente sopportare le parabole di artisti rispettabili e sicuramente influenti per la Musica italiana di qualità, che si prestano ad alimentare queste dinamiche. È inutile concludere con “più musica, meno ciarle”, perché sappiamo perfettamente che non sarà così. Noi irriducibili continuiamo ancora a crederci, anche se ne abbiamo davvero le palle piene.