Fenomenologia di Vasco Rossi

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La conclusione del mini tour che ha visto Vasco Rossi tornare a riempire i due stadi scelti per dimostrare di essere ancora vivo, ci dà l’occasione per qualche riflessione sul come back più atteso degli ultimi due anni nel nostro paese. Che le sette date di Torino e Bologna avrebbero fatto registrare numeri da capogiro era così scontato da far sorridere, più difficile era invece immaginare che il Signor Rossi avrebbe tenuto così bene il palco, considerate le vicissitudini che l’avevano colpito negli ultimi diciotto mesi. In effetti, se inizialmente le condizioni del rocker non avevano preoccupato più di tanto i suoi fan, col tempo l’idea di non rivederlo più in un contesto così si era fatta sempre più insistente, alimentata dal classico gioco al massacro che da sempre accompagna la carriera di Vasco.

Riguardando da principio la sua scalata al trono di act numero uno in Italia, la sensazione è sempre la stessa: i media, e in generale una certa intellighenzia tipicamente italiana, non sono mai riusciti a percepirne fino in fondo la poetica, troppo interessati dapprima alle sue cattive abitudini e in seguito attirati come le api dai numeri, dai record e da tutti i benefici che avere a che fare con un personaggio del genere può portare in termini di ritorno economico. In pochi si sono davvero soffermati su aspetti troppo spesso lasciati in ombra, un po’ perché poco spendibili, un po’ perché magari tornava più facile scrivere le solite quattro banalità tratte da Wikipedia. Basti pensare a come si parla di Vasco negli ambienti della musica indipendente italiana, dove spesso egli viene citato come quello che non si vuole diventare, quello dei pezzoni da stadio, quello venduto alle regole del mercato, mentre poi basterebbe ascoltare il novantacinque percento della produzione indie degli ultimi cinque anni per rendersi conto di quanto Vasco Rossi ci sia in ognuno di quei dischi.

Prendete i suoi primi quattro album, buttateci dentro Rino Gaetano e un po’ di cantautorato anni settanta e ci troverete tutto quello passa al Mi Ami ogni estate. La verità è che tutti vorrebbero essere Vasco e si sa, quando qualcosa diventa impossibile da fare allora è meglio denigrarla o parlarne come di una cosa adatta al popolino. “Grande Vasco, ma non scrive più i pezzi di una volta” è un altro dei cliché ricorrenti quando si parla di qualcuna delle sue ultime produzioni e anche qui le cose da dire sarebbero infinite. Tutto cambia, è inevitabile: chi si aspetta da un artista di sessantanni le stesse cose di quando ne aveva venti non solo è un cretino, ma non è nemmeno in grado di valutare il percorso di un uomo che, con tutte le contraddizioni con cui ognuno di noi convive, ha mantenuto intatti tutti i fili conduttori della sua poetica. È vero, le produzioni si sono fatte più moderne, qualche riempitivo si è fatto strada pericolosamente e qualche volta il rischio di perdere la bussola è sembrato davvero a un passo, ma alla fine, analizzando anche le prove dalla metà degli anni duemila ad oggi ci si accorge che sostanzialmente Vasco è sempre lo stesso, con le sue paure, la sua goliardia e la sua infinita malinconia. È cambiato il suo pubblico, quello sì, una volta composto quasi esclusivamente da persone che ne avevano condiviso le scelte di vita, spesso senza riuscire a sopravviverne e oggi figlio di Rewind, ma quando li guardi nei maxi schermi i suoi occhi lucidi mettono i brividi come venticinque anni fa.

Inoltre, chi dice che non scrive più le cose di un tempo farebbe bene a riprendere in mano Vivere O Niente, che a due anni dall’uscita regge alla perfezione il confronto con molte delle cose scritte agli inizi degli anni novanta. La stessa L’Uomo Più Semplice, seppur travestita da motivetto adatto alla stagione estiva, possiede tutti gli elementi che caratterizzano la scrittura del Blasco da sempre: la primavera come portatrice sana di impulsi vitali (e sessuali) che rimanda immediatamente a Ieri Ho Sgozzato Mio Figlio, la caducità del tempo (Domani Sì, Adesso No) e l’autoirnoia presente in metà del suo canzoniere. Per non parlare de I Soliti, forse la cosa più bella scritta dai tempi di Siamo Solo Noi. Perché Vasco è così, disturbante, eccessivo e al di là del bene e del male. Vasco è libero. Libero di sbagliare, libero di ricominciare.

Luca Garrò

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