La (ri)unione fa l’incasso – Reunion, pro o contro? #3

Per parlare di reunion possiamo affidarci a due icone della cultura pop (e non solo ovviamente) del ventesimo secolo: l’analisi del fonomeno in questione infatti incarna la piena realizzazione dell’einsteiniano “nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma”, mentre riprende e distorce la teoria di Wharhol del “quarto d’ora di gloria”.
Il geniaccio newyorkese infatti teorizzava che la fama dovesse essere divisa a turno da tutta la popolazione, per cui ogni essere umano avrebbe avuto diritto a 15 minuti di celebrità. Il paradosso a cui siamo arrivati invece è che basta avere avuto un quarto d’ora di gloria a un certo punto nella storia dello showbiz per avere diritto a infiniti ritorni, in un ciclico autocitarsi e autoincensarsi del mondo dello spettacolo.

Certo le reunion di vecchi dinosauri con milioni di dischi ventudi all’attivo fanno molta notizia, ma è il meccanismo in sè a funzionare: il rock e la passione per la musica sono qualcosa di prettamente adolescenziale e giovanile, e proprio in quanto tali possono fare leva sulla nostalgia e sul rimpianto della gioventù tipici delle età più mature.
E quindi clamorosi successi per i Duran Duran che ritornano, buoni riscontri per gli Europe, e attesa per gli Spandau Ballet, tanto per dire che non parliamo solo di anni ’70 e di rock. E i Take That sono già tornati (in quattro); ormai nel frullatore dei media nell’era di internet i tempi si sono drasticamente accorciati, quindi aspettiamo il sospirato sì di Robbie Williams, e poi magari anche il ritorno degli East 17!

In fondo è piuttosto normale che, soprattutto dopo anni di oblio, venga la voglia di tornare insieme, riavere quelle emozioni, e ovviamente raggranellare un po’ di soldini. E’ pur vero che più il nome è grosso e più la responsabilità è grande di fronte ai fan storici, per cui suonano particolarmente odiose speculazioni come quelle dei Queen che utilizzano il nome anche senza la partecipazione dei Deacon (e anche, beh, dopo la scomparsa di un cantante dotato di un certo carisma), o i gossip che hanno preceduto la presunta reunion dei Genesis, sbandierata ai quattro venti e pubblicizzatissima, quando in realtà si tratta del ritorno alla base dopo una decina d’anni di Phil Collins e quindi il ritorno della formazione anni 80-90, ma continuano a mancare all’appello Peter Gabriel e Steve Hackett, non serve dire altro. A volte anche le reunion particolarmente malriuscite, come quella dei Pink Floyd al Live8 con Waters e Gilmour che pateticamente non si guardano mai in faccia, o quelle palesemente studiate a tavolino per allargare il pubblico e creare hype e attesa come quella degli Iron Maiden fanno abbastanza cascare le braccia, anche se poi accontentano molti.

Per il resto quando ci sono tutti i componenti della formazione e non ci sono morti o assenti di mezzo si tratta alla fine di adulti consenzienti che decidono cosa fare delle loro vite, come pure è costituito da adulti consenzienti il pubblico che assiste, e se a qualcuno lo spettacolo potrà sembrare bolso e un po’ squallido pazienza, in fondo anche rivedere Maradona che palleggia in tv sa ancora emozionare.
Paradossalmente se guardiamo il mercato una delle rimpatriate più riuscite è una di quelle meno clamorose, ossia il rientro di John Frusciante nei Red Hot Chili Peppers. Non è nemmeno il chitarrista originale (pace all’anima sua), ma dopo un calo di popolarità drastico del gruppo in sua assenza, quando è tornato i peperoncini hanno ricominciato a scalare le classifiche e a riempire gli stadi. Certo pure loro sono sempre più bolsi, però continuano a funzionare molto bene.

Probabilmente cristallizzare e sacralizzare nel passato nomi, gruppi e formazioni  è tipico di un certo modo elitario di intendere la musica, mentre al grande pubblico interessa avere delle emozioni, potere dire “io c’ero” anche con venti o trent’anni di ritardo, in fondo si tratta di spettacolo. Comunque è innegabile che all’entusiasmo del fanboy si accompagna un certo senso di fastidio, e quindi dopo tutte queste parole sale la voglia di accendere un cero a George Harrison che si è portato nella tomba il suo dignitoso rifiuto a resuscitare i Beatles, così come inevitabilmente si guarda con simpatia al già citato John Deacon, e soprattutto si fa il tifo perchè John Paul Jones continui a resistere come ha sempre fatto negli ultimi 30 anni, visto che ciclicamente la voce riemerge. Perchè in effetti proprio di sacralità si tratta, nessuno ha potuto avere nulla da dire sulla ottima tournee di Page&Plant ad esempio, e su quel gran disco che è “No Quarter”. La scelta di farlo a proprio nome è stata felicissima, e in fondo anche un concerto di Page&Plant&Jones sarebbe un evento eccezionale e graditissimo. Ma quel nome lasciamolo riposare in pace, non profaniamo la tomba del faraone. Se solo avessero fatto altrettanto May&Taylor… non suona poi così male no?

Forse però questa aura di sacralità intorno a quella che è solo un’etichetta è eccessiva, in fondo è normale per molti gruppi cambiare formazione e comunque continuare a produrre musica di buon livello, senza necessariamente sciogliersi e ricostituirsi, penso ai Deep Purple di Coverdale (meglio non spingersi in anni troppo recenti), piuttosto che ai Ramones: nessuno è mai stato troppo a controllare le carte di identità dei vari fratelli Ramone, che avevano la tendenza a cambiare piuttosto spesso. Certo che se a qualcuno venisse in mente di resuscitare il gruppo senza Joey (non ce ne voglia il buon Dee Dee ma era già stato sostituito troppe volte) ogni reazione – anche violenta – sarebbe giustificata.
Per concludere in leggerezza segnaliamo Still Crazy, di Brian Gibson, una brillante commedia assolutamente imperdibile per tutti i fan del rock e per qualche riflessione in più sulle reunion.

S.R.

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