Oltre a questo, era inevitabile fare un altro pezzo completamente inutile per le masse ma fondamentale per noi stessi. Un wall of text che non leggerà nessuno se non quella manciata di persone che ci tengono davvero. Iniziammo a raccogliere materiale per Outune (all’epoca era ancora OUTune) nel 2005 (non per niente lo scorso aprile avevamo celebrato con il video paiura assemblato da Mathias che vedete qui sotto, proprio questa ricorrenza), ma l’online effettivo avvenne ad aprile 2006.
Jacopo Casati (J.C. / J³)
Non voglio dilungarmi, anche perchè mi sembra giusto che parli liberamente chi ha davvero contribuito a posizionare questa piccola realtà in un mondo tutt’altro che dorato e chi la porta avanti ora. Mi limito a salutare Vinx, che ha costruito il sito dieci anni fa, a ringraziare Janlu di Maidinit e a dire che in pochi possono davvero capire fino in fondo cosa voglia dire (e cosa comporti anche in termini di vita privata) dedicare TUTTO a un progetto del genere, farlo diventare il proprio lavoro e, in un modo o nell’altro, essere ancora in piedi oggi. Qui non si parla di gente ricca di suo che molla un posto fisso da dirigente o da figlio di papà e va a coltivare carrube in Nuova Zelanda. Qui si parla di uno sfigato che per sentirsi un pelo meno fallito, riversa ogni energia (fisica, mentale ed economica) in una scommessa palesemente perdente dall’inizio. E la vince. A carissimo prezzo. Ma la vince. Fuck The World, Hail And Kill.
Stefano Masnaghetti (S.M.)
Dopo dieci anni esatti dalla sua messa online Outune è ancora qua. Anzi, sta vivendo una nuova era e non è mai stato bene come adesso. Se ripenso al periodo nero pece che si è attraversato neppure un lustro fa mi viene la pelle d’oca, e non posso nascondere un profondo stupore nel vederlo così viva e pulsante. Merito delle straordinarie nuove leve, che hanno dato linfa fresca ed entusiasmo ad un progetto così folle che sembrava destinato a sgretolarsi su se stesso. Merito anche, però, di chi è stato in grado di traghettarla oltre i laghi scuri dello sconforto e della perdita di speranza. Merito, quindi, anche della vecchia guardia.
Un preambolo necessario per mettere ordine nei pensieri. Mi riesce sempre molto difficile scrivere qualcosa di personale; in realtà devo quasi far violenza a me stesso. Un decennio di avvenimenti così intensi rischia di lasciarmi come eredità mnemonica nient’altro che immagini, sensazioni, emozioni e avvenimenti frammentati, sparsi in un pulviscolo emotivo decisamente arduo da riorganizzare in qualcosa di compiuto. Mi balzano in mente i primi giorni: l’esaltazione di partecipare a un qualcosa di completamente diverso nel panorama musicale italiano, perché ai tempi chi poteva permettersi di scrivere di musica a 360 gradi erano solo testate giornalistiche di proprietà di grossi gruppi editoriali. Grossi relativamente a noi, che mettemmo in piedi il tutto con quattro soldi e una prima versione di sito dalla navigabilità mediocre e dall’indicizzazione inesistente. Nonostante questo, proprio l’entusiasmo smodato di far parte di una realtà così figa, così nuova, vero e proprio corpo estraneo nell’orizzonte ristretto del giornalismo musicale italiano, rese possibile il moltiplicarsi, triplicarsi, quadruplicarsi dell’impegno nel giro di appena un paio d’anni, se non meno. Davamo fastidio nell’essere totalmente indipendenti e questo ci piaceva, per lo meno a me. I concerti, i dischi, le interviste e le news da coprire aumentavano, ma pure la nostra volontà di spingersi più in là lo faceva in modo direttamente proporzionale. Poi la creazione della società, la barca di quattrini buttati (da tutti, chi più chi meno) in una follia al cubo che si sarebbe risolta in un fallimento elevato alla quarta, il day after fatto di depressione e ripensamenti, lo scioglimento della SAS, l’idea di Musicologia come epitaffio funebre, il mio personale defilarmi dal centro nevralgico dell’attività (per ben precisi motivi personali e, lo ammetto, anche meramente pecuniari: dovevo ben trovarmi un altro lavoro per avere un minimo di entrate). Poi l’arrivo della nuova generazione, il lento riprendersi di quello che nel mio pessimismo (ma non ero l’unico) avevo dato in agonia definitiva, l’era dell’Attitude 2.0 e la macchina da guerra che è diventata ora.
Quello che mi ha lasciato Outune, delusioni e occasionali meltdown a parte, è tantissimo. È l’aver conosciuto e potuto lavorare con persone incredibili che mai avrei pensato di poter avvicinare (fra parentesi, non faccio nessun ringraziamento individuale in questo pezzo: stima e riconoscenza eterne sono implicite, e riguardo alle persone mi limito al classico “You know who you are”), sono i ricordi di concerti clamorosi e di dischi bellissimi, è la memoria della fatica unita alla soddisfazione per esser riuscito a intervistare un bel po’ di musicisti con i quali non avrei mai neppure sognato di essere in grado di scambiare mezza parola. Per ultimo, la piacevole sensazione di aver combattuto quasi ad armi pari con un mondo, quello del giornalismo, che per un Asperger come me è facile si riveli un antro infernale (no, gli Asperger non sono tutti geni plusdotati come Sheldon Cooper, ahimè). Alcune volte lo è stato, specie nei momenti più sofferti, ma ne è valsa la pena.
Tuttavia, questo non è un pezzo sulla neurodiversità bensì una celebrazione di qualcosa che è parte della mia vita, e allora mi preme citare almeno due esperienze che in me rimarranno indelebili. La prima, quella del Sonisphere a Knebworth del 2010: io, che ho sempre preferito l’ascolto individuale del disco all’atmosfera del concerto (bellissima ma dispersiva, troppa gente e troppe ragazze a far perdere la concentrazione), neppure nei miei sogni più bagnati avrei ipotizzato di poter godere così tanto a un festival; certo, ero già passato per vari Wacken e Gods, ma beccarmi per la prima volta, con la compagnia giusta, lo spoken word di Henry Rollins e soprattutto gli Stooges dal vivo è stata un’esperienza avvicinabile ad un orgasmo da vestito. La seconda, aver scritto gran parte di Musicologia, che mi ha permesso di approfondire la conoscenza di molta musica che prima d’allora avevo solo sfiorato nonché placare la smania di catalogazione enciclopedica della stessa, uno fra i miei interessi assorbenti sin dall’età di nove anni.
La vita mi ha portato ad allontanarmi dall’attività frenetica della nuova epoca di Outune, ma sono davvero, davvero felice di guardare il sito ogni giorno (e ogni tanto riuscire a scrivere ancora qualcosa) e pensare che anch’io ho contribuito ad edificarlo.
“Live long and prosper”.
Luca Garrò (L.G.)
Se fare classifiche di qualsiasi genere resta una delle cose più difficili al mondo, va da sé che queste diventino quasi impossibili quando gli eventi da elencare ti riguardano in prima persona. Detto ciò, un anniversario inimmaginabile e impossibile da prevedere come quello di Outune merita se non una classifica vera e propria, quantomeno un piccolo resoconto di ciò che, senza questa grande follia iniziata dieci anni fa, non sarebbe mai potuto accadere. È davvero arduo ricordare tutto, anche perché i ricordi si sono mischiati così tanto con i sentimenti (e la birra) da impedirne la riemersione dalle acque della memoria. Farò del mio meglio.
Conferenza stampa Queen per arrivo del musical We Will Rock You in Italia: dopo anni di tentativi andati a vuoto, ecco l’invito ad un evento in cui fossero presenti Brian May e Roger Taylor. Dopo aver dato la mano ad entrambi alla fine della conferenza, ero sudato e sfinito come dopo un tappone dolomitico del Giro d’Italia. A questa esperienza, aggiungo quella di pochi anni dopo in cui andai ad intervistare la band ai Trident Studios per il quarantesimo anniversario dalla fondazione. Unico sito web italiano presente.
Seguire Springsteen in tutte le date immaginabili: ad un certo punto, eravamo così dentro ai meccanismi che chiedere accrediti per ogni data di Springsteen in Italia, anche più di uno, era diventato routine. L’idea di poter fare per lavoro quello che avevo sempre fatto in borghese, beh era davvero figa.
Nel 2010, dopo averlo inseguito per una vita (e cinquanta concerti…) riusciamo ad ottenere una video esclusiva con Vasco, che diventa immediatamente uno degli apici del nostro lavoro.
Intervista a Ian Gillan: uno dei momenti in cui mi sono cagato addosso maggiormente nel corso di questi anni. L’occasione fu l’uscita del suo ultimo album solista, quindi in un contesto molto più rilassato che con i Deep Purple. Il risultato fu una fatica simile a quella della conferenza dei Queen, ma qui stavo con lui al tavolo di un bar.
Incontro con Zucchero a Milano: mentre oggi Zucchero indice conferenze stampa aperte a tutti, fino a qualche anno fa incontrarlo era cosa vietata ai più, soprattutto al web. Una lunga chiacchierata, passando dal successo degli anni novanta, fino alla presenza al Freddie Mercury Tribute e con lungo intermezzo sulla fica (protagonista di Vedo Nero, brano dell’album in uscita all’epoca). Epica.
Intervista a Ian Hunter: quando Ian Hunter morirà, in Italia non fregherà un cazzo a nessuno. In realtà, il vecchio leone inglese è stato ed è ancora un punto di riferimento assoluto per tutta la scena british di oggi e di ieri. Chiesi quasi per scherzo di intervistarlo per l’ultima sua venuta a Milano e, con grande sorpresa, scoprii che ero stato l’unico a chiederla. I suoi ricordi di vita on the road con Bowie e Mick Ronson restano impagabili.
Termino qui, ma si potrebbe andare avanti per anni. Chiudo dicendo che questo sito, che ho contribuito a far nascere, crescere e diventare ciò che oggi le nuove leve si trovano a gestire e per il quale, insieme a persone che oggi per me sono imprescindibili, andavo a suonare i campanelli delle case discografiche e a molestare gli addetti stampa, è una delle poche cose che ho fatto in questo settore che credo abbiano avuto davvero un senso. Per le grandi testate, i big del giornalismo, i paraculati e i figli di papà è sempre stato più facile arrivare a certe vette, spesso nemmeno senza stare a sbattersi più di tanto perché erano proprio i diretti interessati a pregarli di andare alle loro presentazioni. State però certi di una cosa: negli ultimi dieci anni, ogni volta in cui si sono recati ad una conferenza, una round table o qualche face to face, le prime facce di cazzo ad aspettarli erano sempre la mia, quella di Jacopo Casati o di Stefano Masnaghetti. E nelle loro teste l’unica domanda è sempre stata: ma questi chi cazzo sono?
Marco Brambilla (M.B.)
La prima metà degli anni 2000. Non riesco ad immaginare un altro contesto per la nascita di Outune. C’era il web, ormai con una buona diffusione anche in Italia, ma mancava il web 2.0 degli smartphone e dei commenti istantanei.
La stampa cartacea specializzata c’era, ovviamente, ma i primi forum -con rudimentali tentativi di aggregare comunità- dimostrarono che un sacco di gente aveva molte cose da dire sulla musica, ed erano tutti pronti a scannarsi. E senza avere in mano niente, se non la una gran voglia di musica, qualcuno decise di buttarsi a capofitto nel mondo delle webzine.
In mano niente vuol dire nessun contatto con case discografiche, etichette o quant’altro. In mano niente vuol dire nessuna conoscenza tecnica per tirare su un sito in maniera sensata.
Una gran voglia di musica vuol dire un impeto naturale a parlare, argomentare, proporre in maniera critica ed oggettiva: qualcuno con la speranza di scoprire i nuovi Metallica setacciando demo su demo, qualcuno con la voglia di vedere riscattati i propri beniamini sconosciuti, qualcuno con il desiderio di fare ordine e chiarezza su temi che pure sulla stampa specializzata venivano bistrattati, qualcuno per scattare qualche foto da far vedere in giro “Perché oh figa ci son 200 fotografi sotto palco e in giro non si vede una cazzo di foto”.
O semplicemente perché siamo Italiani e dobbiamo per forza aver qualcosa da dire su tutto.
Ma non si è dei semplici quaqquaraquà quando si è disposti a dedicare tutto per la musica: guidare fino a Zermatt per un set acustico di Billy Idol, nascondersi nel bagno del posto di lavoro per fare un’intervista telefonica, andare avanti e indietro per l’A4 come se fosse ormai il vialetto di casa, trattare con hacker turchi per poter ascoltare un disco in anteprima, finire in bolletta per volare la notte stessa a Londra per vedere Prince.
Oh certo, qualcuno potrebbe farci notare che, in fondo, era nato tutto come una clamorosa truffa del rock’n roll per entrare a sbafo in un festival europeo, ma evidentemente la situazione ci è sfuggita di mano. Un giorno sei a mangiare il fritto misto a Riolo Terme fuori dall’Heineken, il giorno dopo stai mangiando carbonara con i Bon Jovi. Ti ritrovi con una webradio che vabbeh almeno ci hai provato, con un look per il sito che tempo due settimane ti copiano tutti, con migliaia di fanboys che vogliono scannarti quando dici che Jared Leto non ha voce, e vai stare al fianco degli Alter Bridge nella prima calata italiana. Una notte pisci con tedeschi ubriachi dopo gli Slayer, la notte dopo pisci con Iggy Pop.
In pochi mesi ci hanno già lasciato troppi titani della musica; è anche nostro dovere tenere vivo il ricordo e la loro arte celebrandoli, analizzandoli, proponendoli alle nuove generazioni. Niente è più bello che scannarsi per una passione, senza limitarsi a ‘mi piace’ istantanei ed ascolti a caso su Spotify.
Un grazie speciale a chi ha tirato le redini del tutto, facendo diventare questo la propria vita. Grazie a chi ha comunque compromesso la propria vita solo per il gusto di scrivere di musica e sentire il calore dell’ambiente, degli appassionati. Grazie a quelli che hanno raccolto la torcia, le nuove generazioni che portano avanti il tutto con entusiasmo. Grazie a tutta la mafia e agli sfigati che si credono grandi e grossi, che hanno cercato di metterci i bastoni tra le ruote, riuscendo solo a regalarci grasse grassissime risate. E ovviamente grazie a tutti quelli che hanno cliccato, letto, commentato. Lo facciamo per noi, lo facciamo per voi, lo facciamo per la musica.
Nicola Lucchetta (N.L.)
Non mi metto a fare le sviolinate oggi, al traguardo dei dieci anni di Outune: non l’ho mai fatto. Anzi, sono quello della cumpa che ha sempre da ridire su quasi tutto, che se serve provoca ma comunque in maniera costruttiva. Sono sempre stato la scheggia impazzita, iniziare ad entrare a far parte del circo dei “pompini a vicenda” sarebbe ipocrita.
Come ipocrita sarebbe non dire che in otto anni ho vissuto in una vera famiglia, con tutti i positivi e negativi del caso: si litiga, “siamo tutti amici, ci vogliamo bene, ci scambiamo di nascosto le figurine”, si costruiscono delle nuove amicizie.
Una cosa è sicura: in dieci anni Outune si è costruito un nome, una reputazione e gode di un certo rispetto tra promoter e discografiche. E il tutto con uno degli ostacoli che in molti non hanno: un nome così del cazzo che, a distanza di dieci anni, a chi ti becca per la prima volta o lo devi pronunciare “come si scrive” o devi ripeterlo minimo tre quattro volte.
Ora ecco le tre cose che spiegano perché Outune spacca il culo:
E’ UN TRENDSETTER
Sì, abbiamo parlato di molti gruppi prima che il resto del mondo li incessasse. Gli Alter Bridge da ste parti sono di casa dall’uscita del primo singolo (il grosso del giornalettismo li ha iniziati a cacare dal terzo disco); se non siamo stati i primi a parlare dei Tonight Alive in Italia siamo stati i secondi (a momenti neanche l’etichetta era a conoscenza di averli nel roster); seguivamo i Paramore quando in Italia la maggioranza li spernacchiava (salvo salire sul carro dei vincitori quando tornarono in Italia nel 2013, radunando 6000 fan); gli Airbourne li abbiamo scoperti noi perché il capo è un quasi quarantenne che segue ancora la WWE; Bello Figo Gu, quando lo strombazzava Vice come new sensation del lol rap, ci aveva già annoiato da almeno sei mesi. Esulando dai gruppi siamo stati tra i primi a fare le videointerviste quando erano prerogativa di media con budget ben più danarosi e abbiamo fatto la webradio quando il mondo doveva ancora metabolizzare la fine di RockFM. Può bastare?
FA SENTIRE LA SUA VOCE
Al punto di tirar su dal nulla un feud con un giornalista di Rai Radio 2, che non si trovava d’accordo con un report del concerto degli Stone Roses a Milano (una gran merda, tra parentesi), e a scatenare la Sasha Torrisi Army per un paragone con Blaze Bayley degli Iron Maiden che, ad un anno di distanza in molti devono ancora capire. Ah, in entrambi i casi era colpa mia.
HA LA FACCIA TOSTA DI CHI NON HA NULLA DA PERDERE
Sì, perché siamo quelli che riescono a fare degli eventi all’estero senza il paraculo di un amico nell’etichetta o nella band. Rock Im Park 2010 resterà un capolavoro politico che difficilmente si ripeterà (infatti c’abbiam provato due volte e ci han dato buca). Siamo anche quelli che se anche fanno la figura di merda la prendono con il sorriso, come quella volta che qualcuno parlò male degli ebrei con dei cittadini di Israele a un passo di distanza, o quella volta che qualcuno voleva ammazzare il tour manager dei Blink-182 perché trattò di merda i fan durante un meet and greet, o quella volta che, data la maglietta di Outune ai Simple Plan per un videosaluto, ce la riprendemmo perché “era l’ultima” e, last but not least, che si mette a dire “ciao negro” (emulando il vate Don Capucino) e dopo un secondo si fa servire da una persona di colore allo Spizzico.
Per queste ed altre cose, che mi sfuggono perché non ricordo cosa ho mangiato a pranzo oggi, Outune tivubbì!
Corrado Riva (C.R.)
2006 – 2016…ti accorgi che Outune esiste da 10 anni, e ti accorgi, con sommo gaudio, che in questa lunga avventura ci sei dentro praticamente dagli inizi.
Sono andato in “archivio” a spulciare, ed ecco cos’è saltato fuori: 13 aprile 2006. Rage + Freedom Call al Rainbow di Milano. Si, 10 anni fa esisteva un locale con questo nome a Milano, solo i vecchiazzi ormai se lo ricordano, ed era un gran bel locale. Ci vidi pure i Blind Guardian nel tour di Nightfall in midle earth e i Gamma Ray in quello di Powerplant. Ma sto già divagando.
Dicevo che se mi guardo indietro mi accorgo che la mia collaborazione con Outune è praticamente decennale. Sebbene abbia iniziato a collaborare attivamente dal 2009, il primo pezzo che scrissi fu proprio in occasione di quel gran concerto dei Rage. Più tardi lo stesso anno mandai a Jacopo un altro pezzo su Van De Sfroos.
A quei tempi (sembro mio nonno quando mi raccontava della guerra) Outune era un mezzo blog praticamente con zero grafica e una manciata di collaboratori disperati, poi, tra 2008 e 2009 JC ha deciso che era ora di fare il botto e di far diventare il blog una testata giornalistica coi controcazzi, con un botto di contenuti ed ancora più visitatori.
Da li è partita la collaborazione vera per me, e da li sono arrivate tante soddisfazioni: ho potuto intervistare band e artisti che da sempre adoravo, ho preso contatti con musicisti che ho sempre apprezzato e ad oggi sento costantemente tramite social network (si, a volte servono anche per qualcosa di utile ‘sti cosi), ho pure conosciuto un sacco di musicisti nei quali, senza Outune, probabilmente non mi sarei mai imbattuto e che seguo assiduamente tutt’ora. Ho sperato di vedere band emergenti fare il botto…cosa che non è accaduta a nessuno a livelli mainstream, ma che in alcuni casi è successo in ambiti più ristretti ed underground, ho ascoltato un sacco di buona musica e a volte anche un sacco di robaccia.
Insomma, di pagine digitali ne ho imbrattate molte, e sempre con il piacere di poter scrivere di musica, la mia più grande passione praticamente da sempre. Non ho idea di quanta gente abbia letto quel che ho scritto, ne di quanti abbiano pensato che invece di scrivere di musica avrei fatto meglio a buttarmi in un fosso, onestamente mi interessa praticamente zero della cosa.
Mi importa di far parte della grande famiglia di Outune, mi importa scrivere di musica e farlo divertendomi, e più di tutto, mi importa avere fatto la foto con Bruce Dickinson e avere l’autografo di Steve Harris. Ecco.
Claudia Falzone (C.F.)
Sebbene non faccia più parte dell’attuale redazione, Outune è stata, è e rimarrà per sempre un grande capitolo della mia vita. I momenti vissuti all’interno di questa grande famiglia sono innumerevoli, ma questi sono senza dubbio indelebili.
– Aver intervistato, per ben due volte, Slash: non sembra, ma per una ex dodicenne che nel suo walkman aveva intere compilation dei Guns ‘n’ Roses, incontrare Slash non è esattamente una cosa di tutti i giorni.
– La prima intervista: Tuomas Holopainen dei Nightwish. Fino al giorno prima avevo solo scritto qualche recensione e live report, quindi avevo le classiche paure legate alla prima volta. “E se faccio domande cretine?”. Se ami questo lavoro e sei super pignolo, questo tormento non ti abbandona mai ma almeno impari ad addomesticarlo.
– La fiera della musica a Bologna. Non avevo mai partecipato a un evento simile, tanto meno fatto parte dello staff di uno stand. E’ stato uno sbattimento tremendo, però mai come allora ho sentito di far parte non solo di un progetto, ma di una vera e propria FAMIGLIA.
– La volta in cui sono stata citata in un libro. Ero al compleanno di un amico e collega, una sera di luglio 2014, quando il boss mi comunica di esser stata menzionata in un libro. Ovvero “Alter Bridge: la fortezza del rock”. Mi sono sentita felice e orgogliosa di me stessa, perché era la dimostrazione che in fondo, a qualcuno, può interessare la mia opinione. Che è uno dei motivi per cui si scrive. No?
– Ultimo, ma primo in ordine di importanza, quell’incontro con un boss che poi sarebbe diventato non solo un amico ma un vero e proprio bro. Nonostante all’epoca non fossi ancora cosciente del fatto che avrei voluto fare questo lavoro in futuro, è stato grazie a lui e al suo entusiasmo se tutto questo, e molto altro, è stato possibile.
Riccardo Canato (R.C.)
Ricordo un listening party degli Slipknot, due capelloni ed un cenno d’intesa.
Ricordo un viaggio a Zurigo e le risate in treno, così come un JC telefonarmi per intervistare un altro JC (Cantrell, per intenderci).
Ricordo anche “quella volta con Selen…”.
Outune é l’underdog che sta al tavolo dei grandi.
Per racchiuderne lo spirito in due parole: attitudine clamorosa.
Stefano Di Noi (S.D.N.)
Non vorrei dilungarmi troppo, né fare la figura del vecchio che “ai miei tempi”, eppure il nocciolo del discorso è proprio quello. Io la rete e il giornalismo musicale li ho proprio visti nascermi davanti. Lo so, “giornalismo” e “musicale” è un accostamento ridicolo ma è che “giornalaismo” suona demmerda, siate buoni.
Però, insomma, di anni ne sono passati parecchi sul serio, ma ricordo che dopo un po’ di esperienze in giro, tanta aria annusata e schermate imbrattate di scritte, un giorno un amico mi fa “vorrei fare un sito fatto così e così ma soprattutto no money, no fun, no trend, no gore, ci stai?” e gli ho risposto di sì. E ho avuto pure la faccia ti tirar dentro altra gente. E, attenzione, sono colpevole. Perché lo sapevo. Tutto mi era chiarissimo. Sapevo che eravamo una banda di poveri scemi!
Si era cominciato come l’armata Brancaleone che eravamo. Tanta passione. Tanta. Tanta onestà intellettuale, va detto, e anche una chiara idea su cosa non si dovesse fare mai. E anche un po’ di faccia da culo. Non c’era altro. Forse anche un ego un po’ ipertrofico. Insomma, ce la credevamo un po’ tutti, a torto o a ragione. Però OUTune è ancora qui, quindi magari avevamo più ragione che torto. Il dramma è che se sapevamo cosa non volevamo fare e dove non volevamo finire non avevamo proprio chiarissimo né cosa fare né come fare per farlo.
Non voglio finire alle prevedibili pacche sulle spalle. Al “bravi tutti”. No. Il privilegio di chi è sceso da un treno (per restare in stazione) è quello di parlare di ciò che non va. Perché le cose che nascono e vengono portate avanti per passione soffrono sempre degli stessi problemi: organizzazione lasciata alla buona volontà del singolo e poche persone a farsi il culo.
OUTune non ha fatto mica eccezione. Non crediate. Si è partiti davvero con una scarpa e una ciabatta ed esclusivamente per la tigna dell’ottimo Casati e per la voglia di noialtri di farci largo e anche cacare un po’ in testa di chi c’era “prima di noi”. La strada era tutta in salita, la mancanza di organizzazione, di testa e di denari ha reso la salita ancora più impervia. A guardarsi alle spalle, sarebbe bastato davvero poco a ridurre di
parecchio la fatica. A impostare subito le cose in modo funzionale. E non imbroccare strade sbagliate che ci hanno fatto perdere tempo e fatica.
Ci provammo anche a far salire a bordo dei “professionisti”. Poteva funzionare. Anzi, avrebbe sicuramente funzionato se i “professionisti” fossero stati tali, se non fossero stati un’altra banda di boriosi coglioni
improvvisati quanto lo eravamo noi al momento di iniziare.
E poi succede che la vita prende a un certo punto il sopravvento, di ritrovi con il tempo libero sempre più limato, ti ritrovi con meno energie, ti ritrovi anche che ti seri un po’ rotto le palle e saluti tutti. Un saluto in parte amaro, perché, sotto sotto, vorresti ancora essere dentro quella famiglia, perché, nel bene o nel male, ti ha regalato momenti meravigliosi e esperienze irripetibili.
Grazie OUTune e che il dio della musica ti preservi in salute!
Valentina Lonati (V.L.)
Quando Jacopo mi ha chiesto di scrivere qualche riga per i 10 anni di Outune, beh, il mio primo pensiero è stato: cazzo, sono vecchia! Nel 2008, quando iniziai a collaborare con il sito, ero una 22enne totalmente squinternata, appena uscita da un Erasmus delirante e in piena crisi d’identità (non che le cose siano cambiate da allora, per carità!). L’unica certezza, da sempre e per sempre, è la passione per la musica. E così incominciai a scriverne, di musica. Soprattutto di rock, e delle band emergenti che piacciono a me. Mi ricordo ancora la prima intervista. Loro erano gli Alphabet, band danese (o svedese?) caduta poi nell’oblio (…anzi no, ho appena controllato: è del 2015 il loro ultimo EP!). Ho ancora una foto con loro da qualche parte, insieme a un mio ex, tra l’altro. Da allora, non ho mai smesso di scrivere di quello che mi appassiona. E il merito va tutto a Luca Garrò, rozzanese come me conosciuto durante le momorabili riunioni di redazione del Vivirozzano, e ovviamente a Jacopo, che mi ha accolta a braccia aperte. Insomma: God save Outune, sempre e comunque!
Denise D’Angelilli (D.D.)
NUN T’EMOZIONA’ <3
Quando ho iniziato a scrivere per Outune ero una ventenne in cerca di gloria che fondamentalmente voleva andare ai concerti gratis. Ora che sono quasi una trentenne (HO DETTO QUASI) tiro le somme e dico che ho trovato entrambe le cose. La gloria l’ho trovata conoscendo artisti che non avrei mai avuto modo di conoscere senza questo pazzo pazzo sito internet, di concerti gratis ne ho visti una quantità così grande da farmi odiare da tutte le mie amiche. Ho vissuto talmente tante esperienze che adesso sicuramente me ne perso qualcuna per strada.
Qualche esempio:
1. Un giorno Jacopo m ha chiamata e mi ha detto “ma li vuoi intervistare i White Lies?” Ho perso qualche battito cardiaco. La mia prima intervista in inglese a uno dei miei gruppi preferiti. Ho passato una delle serate più belle della mia vita seduta su un divano a parlare con Jack Lawrence Brown della sua musica, di Morrissey e del fatto che mi stia parecchio sul culo Edgar Allan Poe, balbettando, con lui che si complimentava per il mio british accent e mi offriva the corretto al gin. Harry McVeigh mi ha chiesto di fare due tiri a calcio con lui nel corridoio del backstage e credo di essere una delle poche persone al di fuori dei suoi amici a poter dire di averlo visto indossare dei pantaloncini da basket invece della sua solita divisa camicia-abbottonata-fino-all’ultimo-bottone.
2. Mi sono ritrovata a porre demande ad artisti enormi, seduta di fianco ai giornalisti di cui leggevo gli articoli da anni. Penso a The Black Keys, a Professor Green, a The Killers, agli All Time Low, a Cesare Cremonini. Mi sono sentita un pesce fuor d’acqua e una figa da paura, una ragazzina e una donna, una scappata di casa e una professionista.
3. Sono andata a scroccare l’open bar a Sanremo con un pass al collo con scritto Outune per tre anni.
4. Ho sempre avuto carta bianca, spesso mi sentivo come se stessi scrivendo un pezzo per il mio blog personale. Ho usato la parola “cazzo” parecchie volte, ho distrutto degli artisti e ne ho elogiati altri. Ho difeso gli One
Direction, ho parlato di Taylor Swift, ho nuotato tra pop e rock come se niente fosse. Fino al momento più bello di tutta la mia vita:
5. Ho abbracciato Brandon Flowers. Ma forse storia la sapete già. Ho superato la mia difficoltà di dover rivolgere la parola a persone sconosciute, ho tirato fuori la faccia da culo, ho imparato a fare quello che faccio ancora oggi, ho conosciuto un sacco di persone, sono cresciuta, ho tirato fuori la testa da sotto la sabbia. Per fare questo lavoro ci vuole la gavetta, lo sappiamo tutti. Si può essere sfortunati e ritrovarsi in qualche redazione a fare fotocopie e caffè con il capo che non sa nemmeno come ti chiami. Si può essere fortunati e ritrovarsi con un gruppo di persone che condivide la tua stessa passione e con un boss che ne sa più di quanto ne sanno quelli che fanno parte del Gotha.
Grazie JC, grazie agli stronzi che scrivono qua sopra e che adesso sono i miei amici. Grazie a Umberto che sopporta le mie turbe, che è un compagno di concerti formidabile, che non mi sgrida se mando i pezzi in ritardo (o non li mando proprio). Grazie ad Ale Mela col quale ho passato una delle settimane più assurde della mia vita allo Sziget e che arriverà dove vuole arrivare, perché se ci sono arrivata io allora sì che può pure lui. Grazie a chi rende un semplice sito internet buttato nel web in mezzo a migliaia di webzine un punto di riferimento e un luogo dove si possono leggere delle opinioni scritte con il congiuntivo corretto. Nelle cose che vi piacciono ci dovete credere sempre, vi dovete sbattere, dovete buttarci il sangue e il sudore, ma alla fine venite ripagati, sempre. Io scrivendo Outune sul curriculum sono arrivata a Rolling Stone, a Italia Uno, dove sono adesso. Fate quello che volete fare e circondatevi di persone come voi. Il resto, poi, verrà da solo. (Se usate correttamente il congiuntivo).

Umberto Scaramozzino
Eppure io tre anni fa, quando mandai quella mail lunga e incravattata, ero convinto che avrei scritto di musica solo per farmi i cazzi miei. Volevo solo poter andare a tutti i concerti senza doverci investire lo stipendio, non l’ho neanche mai nascosto.
Invece questo capitolo della mia vita è iniziato a sorpresa con un’intervista nella stanza d’albergo di Mikkey Dee, batterista dei Motörhead, insieme ad una persona che pensava di impressionarmi fin da subito facendomi vedere quello che con Outune avrei potuto fare, senza rendersi conto che ad impressionarmi fu quella scintilla che vidi nei suoi occhi. Occhi orgogliosi di qualcosa che non poteva portare quattrini, ma che poteva creare storie. Io volevo quelle storie, volevo quella scintilla. E così l’ho inseguita, prendendo in mano quello che i vari Casati, Garrò (clap clap), Masnaghetti, Brambilla, Lucchetta e tanti altri avevano creato in anni di culi spaccati a destra e a manca e facendo del mio meglio per meritarmi il mio posto nella famiglia. Così nel giro di un paio di mesi mi sono ritrovato in un microcosmo tanto bello quanto agonizzante, con il desiderio irrefrenabile di riordinare le mie priorità per prendermi carico di un compito più grande di me: farlo sopravvivere, quel microcosmo, e renderlo più prospero che mai.
Per un lungo periodo ho rinunciato al sonno per poter dare a questa testata ciò di cui aveva bisogno, con la consapevolezza di non essere il primo né l’ultimo a farlo, perché per qualche strana ragione che trascende le logiche dell’ambiente, Outune si infila tra la pelle e la carne. Tre anni di piena dedizione in un progetto e in cambio ho avuto i migliori anni della mia vita. Ho conosciuto persone meravigliose, alcune delle quali sono effettivamente oggi tra le persone a me più care. Ho finto per un giorno di essere amico di Brian Fallon, ho ascoltato John Butler suonare solo per me e per la mia amica dai capelli rossi, ho guardato gli Alter Bridge suonare stando alle loro spalle sul palco, ho detto “grazie” a Brandon Flowers per i ricordi che ha accompagnato con le sue canzoni.
Ma prima delle rockstar c’è la mia redazione. Abbiamo passato ore a parlare delle grandi cose che avremmo fatto, abbiamo attraversato intere città a piedi di notte con gli zaini pieni di Ceres portate via dal backstage, ci siamo soccorsi per prevenire o rimediare a collassi, ci siamo sbronzati dopo le riunioni, abbiamo viaggiato anche stando fermi, e io ho scritto racconti ispirati a fatti e persone della redazione (e questo non tutti lo sanno), ho custodito segreti e sognato ad occhi aperti. Sono diventato per i miei amici “quello che scrive e va ai concerti”.
Outune compie dieci anni e due pensieri si contendono la mia testa: il primo – quello che mi fa soffrire un po’ – è che ormai da diversi mesi mi sono ritrovato costretto a defilarmi, mentre il secondo – quello che ora e sempre mi renderà orgoglioso – è che mai e poi mai smetterò di essere parte di questa redazione.
Luisa Marinari
E’ successo venticinque mesi fa, ma potrebbero esserne passati tranquillamente molti di più, perché quando parlo di Outune, lo faccio sempre con quella sicurezza, quel senso di confidenza e quella punta rilucente di orgoglio ed affetto che con cui si racconta la propria famiglia. Che poi, in fondo, Outune non sono i miei due anni passati qui, e non sono nemmeno quell’archivio inconcepibile di interviste ad artisti della madonna e contenuti di ogni tipo che a vederli lì mi hanno istigato un quasi reverenziale timore. Outune sono quelle storie che si celano negli spazi tra ciascuna di quelle parole, sono le imprese di ordinaria follia di un manipolo di gente che ci ha sempre creduto davvero e sono i racconti di quattro masnadieri ubriachi al bar.
Sono le risate a crepapelle e le madonne lanciate fino a notte fonda, sono i deliri lucidi e i ragionamenti senza senso, le note delle nostre canzoni preferite e quelle che ci hanno fatto schifo, ma soprattutto quelle che non ci hanno messo tutti d’accordo. Sono le persone che mi hanno permesso di incontrare una rock band che rappresenta un pezzo speciale tra tutti quelli che mi compongono, sono quelle che hanno incrociato il mio sguardo rapito puntato verso le casse, quelle che ammiro, quelle che mi hanno vista invasata sotto un palco e invece di calmarmi mi hanno assecondata e galvanizzata, sono quelle che hanno vagato con me per ore prima dell’inizio di un concerto, dopo aver riempito una piccola stanza di parole in un inglese buffo, mentre fuori la ruota panoramica gira. Sono quelle a cui permetto di chiamarmi “Lulù” anche se l’ho sempre detestato perché qui si viaggia su binari differenti (ma “Loo” non l’ho mai accettato).
Sono due anni che sono qui e sembrano troppi, troppi di più, e vorrei tanto aver imparato a essere meno prolissa e più cattiva, ma alla fine di tutto, spero di essere almeno riuscita a insegnare a chi ho incrociato in questi
pochi lunghi mesi che Outune spacca i culi.
Mathias Marchioni
In carrozza da meno di due anni, potrei e dovrei considerarmi un novellino.
Purtroppo e per fortuna così non è e questi 21 mesi di OUTune li ho vissuti così a pieno che me li sento addosso come fossero anni.
Per questo motivo selezionare dei momenti risulta praticamente impossibile, perché ne potrei elencare uno al giorno per ogni giorno passato su questa testata.
In due anni di Outune ho macinato 58000km in giro per l’Europa a fare quello che da sempre è stato il mio sogno nel cassetto, far foto ai concerti, scrivere di musica, lavorare su un portale che ne parlasse ogni giorno.
OUTune è stato il trampolino di lancio per arrivare su Virgin, Onstage, Rockol e mi perdonino le altre testate che non cito. Con OUTune mi sono ritrovato allo Sziget e siamo stati gli unici in Italia a portare a casa le foto dell’ultimo concerto dei Blink182 con DeLonge in formazione, mi sono ritrovato sottopalco ai Kiss all’Arena, a fare videointerviste alcoliche coi Darkness, a conoscere così tanti esseri umani meritevoli di essere salvati da un meteorite che quasi (a volte) mi sento Pollyanna.
Ci si fa il culo è vero e ogni giorno che passa ce lo si fa sempre più grosso e di bile ne abbiamo così tanta che l’abbiamo commercializzata e la vendiamo sottobanco alla RedBull…ma cazzo quant’è bello!
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