Esce oggi (29 gennaio) “Folkadelic”, terzo album di Luca Gemma, che dal folk – rock dei Rossomaltese (la band fondata insieme a Pacifico) è approdato ad una peculiare forma di canzone d’autore, memore del suo gruppo d’origine ma anche ricca di spunti diversi, dal soul al r’n’b al reggae, il tutto condito da un’impronta ‘pop – psichedelica’. Lo abbiamo raggiunto telefonicamente per un rapido scambio di battute.
Quali sono le differenze principali fra il tuo nuovo disco e i suoi predecessori? Come ti sei mosso questa volta?
“Saluti da Venus” è stato il mio primo disco solista, quindi quello in cui ho iniziato a prender confidenza con questa dimensione. Poi c’è stato “Tecniche di illuminazione”, prodotto da Paolo Iafelice e suonato con un approccio molto ‘da band’. “Folkadelic” è diverso da tutti gli altri perché si tratta di un album più mio, anche se l’apporto di Ray Tarantino, con il quale collaboro già da tempo e che in questo lavoro ha suonato diversi strumenti, è stato fondamentale in fase d’arrangiamento e di produzione. L’abbiamo registrato in un loft di Milano che, prima dell’arrivo dei nostri strumenti, era completamente vuoto. Avevamo bisogno di uno spazio che non somigliasse affatto ad uno studio di registrazione vero e proprio, che ci desse il massimo in termini di libertà nella ricerca dei suoni giusti. Ovviamente per mixaggio e masterizzazione siamo poi passati in studi di registrazione veri e propri.
Ho notato in molti episodi di “Folkadelic” sonorità molto vicine al blues. Che ne pensi?
Mah, non proprio. Non sono un grande appassionato di blues tradizionale. La mia formazione è più vicina al soul e al rhythm and blues, se parliamo di black music. Musicisti come Paul Weller, piuttosto. Oppure, parlando di questo disco, il folk dei Bon Iver. È però vero che “Folkadelic” è più fisico e carnale rispetto ai miei precedenti, io e Ray abbiamo deciso di sporcare maggiormente i suoni, di avvicinarci al roots rock. In questo senso si possono vedere anche delle componenti blues nel suo suono, che in passato non c’erano.
A proposito, il titolo è per caso un omaggio ai Funkadelic di George Clinton?
In realtà no! Conosco Clinton e i suoi progetti, ma per adesso non mi sono ancora addentrato nel funk. Potrebbe esser visto come un omaggio involontario, ma la mia intenzione è stata quella di trovare una crasi essenziale fra i termini ‘folk’ e ‘psichedelia’, che credo siano i due elementi fondamentali del disco.
Nella tua vita hai fatto moltissimi lavori diversi, dal redattore per Encyclopedia Britannica al ragazzo di fatica in fabbrica, e hai anche trovato il tempo per laurearti in scienze politiche: perché tra tutte queste possibilità hai scelto di dedicare la tua vita alla musica? Qual è stata la scintilla che ti ha fatto prendere questa decisione?
Ho sempre avuto una grande passione per la musica, e anche quando studiavo ho sempre suonato. Infatti proprio all’università ho conosciuto Gino De Crescenzo, ossia Pacifico. E alla fine ho deciso di trasformare questa passione nel lavoro della mia vita. Tanto che dopo essermi laureato una mia professoressa mi ha chiesto se volevo seguire un dottorato in sociologia, ma io le ho detto che avevo già scelto di suonare in un gruppo; mi ha risposto che facevo bene, avercene di giovani con una vocazione. Insomma, so che quello del musicista è un lavoro fra i più precari che ci siano, ma l’ho scelto io e mi sta bene così. E poi se avessi fatto il dottorato probabilmente sarei ancor più precario di quello che sono adesso (risate).
Durante la tua carriera hai conosciuto moltissimi artisti; quali sono quelli che più hanno influenzato la tua crescita musicale?
Sicuramente l’esperienza nei Rossomaltese con Pacifico è stata fondamentale, direi formativa; lì ho imparato cosa vuol dire essere un musicista. Oggi Pacifico non lo sento più da un pezzo: niente scazzi, semplicemente abbiamo fatto due strade diverse, ma i lavori fatti insieme a lui mi hanno introdotto a tutto il resto. Un altro incontro importantissimo è stato quello con Steve Piccolo (uno dei fondatori dei Lounge Lizards, ndr.) durante il progetto speciale “Expedition”; mi è servito soprattutto per migliorare le mie capacità vocali, e mi è anche stato utile per confrontarmi con un approccio più jazz alla musica, che non faceva ancora parte del mio bagaglio stilistico. E poi ci son state anche le collaborazioni sui dischi di Bobo Rondelli e la ‘musica funzionale’ composta per “La Fabbrica di Polli”, trasmissione dell’Istituto Barlumen e del duo Cappa e Drago, in onda su Radio3.
Torniamo al disco: hai detto della tua canzone “Ogni cosa d’amore” che tu, eterosessuale, canti l’amore gay perché in un paese ipocrita come l’Italia nessuno ha il coraggio di farlo. C’è forse qualche riferimento a Povia e alla polemica per la sua canzone dello scorso Sanremo?
No no, sinceramente Povia non lo considero un mio referente, non m’interessa proprio quello che fa. In realtà non canto tanto l’amore gay, quanto l’amore in senso lato. Ossia, voglio mettere in chiaro che ogni storia d’amore vale quella di chiunque altro, che considero l’amore omo od etero perfettamente equivalente. E quello che mi fa arrabbiare è che nel nostro paese nessuno abbia il coraggio di dire “io amo chi voglio, e non rompetemi le palle!”. Sono un grande fan degli Smiths, e già Morrissey in Inghilterra componeva bellissime canzoni d’amore su questo tema venticinque anni fa, e tutti sapevano che era omosessuale e che parlava di quel tipo di relazioni. Invece da noi non si muove niente in questo senso, e la cosa paradossale è che cercava di farlo Umberto Bindi negli anni Sessanta, mentre adesso molte persone che avrebbero la possibilità di esporsi non hanno il coraggio di farlo. Probabilmente per calcolo, per non scontentare nessuno, per coltivare il proprio orticello e basta. Eppure non c’è un cantante omosessuale che voglia rompere questo silenzio e dichiarare che il suo amore non è inferiore a quello degli altri. Io non ho da insegnare niente a nessuno, per carità, ma con questa canzone la mia intenzione è stata quella di denunciare questo stato di cose che sinceramente trovo sconcertante.
Hai già fissato un tour a supporto del disco?
Per ora ancora no. Prima farò degli showcase in varie librerie e centri commerciali, come ad esempio alla FNAC di Milano, il prossimo 4 febbraio. Successivamente un po’ di date nei club, che stiamo organizzando adesso. Poi spero di suonare molto nella stagione estiva, fra festival e date singole. Partirò in tour con una band elettroacustica di quattro elementi; è piccola ma gira bene.
Stefano Masnaghetti