Con il secondo concerto di Conegliano (Treviso) il 19 dicembre 2015, Jovanotti si congeda dal Triveneto confermandoci le sensazioni avute quest’estate nelle date negli stadi: le polveri non si sono seccate nella calura estiva e di cartucce il buon Lorenzo ne ha avute ancora da utilizzare nei live invernali.
La produzione di questi eventi nei palazzetti è sempre di altissimo livello e forse potremmo dire addirittura migliore di quella proposta negli show negli stadi. Certo, tutto va ridimensionato e confezionato su misura quando passi dai catini calcistici agli imbuti dei palasport, ma bisogna dire che l’organizzazione alle spalle del buon Cherubini è quanto di meglio oggi si possa trovare in Italia, a garanzia di uno spettacolo che non risulti prevedibile o ripetitivo nel suo cambiarsi d’abito tra una stagione e l’altra.
Si parte allora con una scaletta nuova, studiata per non lasciare allo spettatore che pochi momenti in cui rilassarsi su quelli che potremmo definire brani filler, ma solo se non siamo tra quelli che a un live del Jova i brani li sanno cantare tutti a memoria. Parlo di pezzi come “Ragazza magica” e “Dove ho visto te”, che sono signore canzoni inserite a puntino dove serve per creare quell’atmosfera diversa in un concerto altrimenti sempre sull’onda del massimo coinvolgimento emotivo e fisico. E si sa che certi momenti si apprezzano di più se si vivono fra un alto e un meno alto, ma Jovanotti di andare in basso coi toni ieri sera proprio non ne voleva sapere.
Poi gli arrangiamenti: smesse le sonorità più etniche e tribali, e anche quella chiave funk che aveva caratterizzato gli show estivi, ecco matrici e suoni più elettronici e da club, con qualche concessione a quelle atmosfere da piano bar che tanto funzionano quando si devono proporre canzoni d’amore in un contesto come quello dell’arena di Conegliano. E il tutto, dal vivo, rende dannatamente bene, coinvolge dal primo all’ultimo brano in modo tale che alla fine, sulle note di “Ragazzo fortunato”, eravamo tutti lì che ne volevamo ancora, come se due ore e mezza non fossero bastate a farci sudare l’anima e a saltare come ventenni, a farci scatenare con l’amico di fianco o scambiare qualche effusione e occhietto languido con la fidanzata al seguito. E poi ci sono i bambini che urlano il ritornello de “L’ombelico del mondo”, e il Jova che riceve da una spettatrice che compie gli anni un improbabile copricapo coperto di candeline e festeggia con lei dal palco, proponendo uno scambio con uno dei suoi cappellini di scena dopo qualche brano. Grandioso.
E da parte dello showman, c’è il richiamo alla sua eterna gratitudine per le soddisfazioni che un lavoro come il suo può dare, il debito di riconoscenza verso la gente che gli permette di campare di musica (sì ok, “campare” è un eufemismo), la netta sensazione di avere in mano il pubblico fin dal momento in cui mette piede sul palco e di lasciarlo lì sotto le luci diffuse a fine spettacolo con l’impressione di aver visto uno dei migliori concerti che la piazza italiana oggi possa offrire.
Jovanotti è un artista in grande forma che non ne sbaglia una, accompagnato da un gruppo che sa cosa serve per far rendere il capobanda al meglio e, dulcis in fundo, un Saturnino che sa tenere il palco come il suo amico col microfono, solo che lui ci suona il basso ma di fare lo sfigato di turno proprio non ne ha mai voluto sapere.