Andare a sentire Peter Hook mi mancava. Come dice un mio amico: “fa Curriculum”. Durante tutto il concerto infatti ho continuato a cambiare continuamente opinione. In principio, il concetto chiaro di star assistendo a quello che è un baraccone ben costruito. Guardiamoci in faccia, Hook sta portando in giro (assolutamente in maniera legittima) brani che nella migliore delle ipotesi hanno più di 30 anni, mischiando insieme, se pur con due set separati, il repertorio delle sue due band. È un pensiero triste, me ne rendo conto, ma legittimo. Il più delle volte quest’idea però viene spazzata via dal momento vissuto. Questo perché il live non è male, non lo è affatto. Anzi, è molto di più che un semplice show.
La band che accompagna Hook suona. Punto. E lui stesso regge il palco per quasi 3 ore, il che per un signore di quasi sessant’anni non è poco. Soprattutto perché durante l’intera durata non perde un colpo. L’impressione che si ha alla fine è quello di essere dei privilegiati che ancora possono ascoltare e vedere un pezzo di storia della musica moderna. E l’impressione diventa sempre più conferma ed emozione pura man mano che il concerto cresce di intensità, fino alla sua conclusione, nella quale i grandi classici dei Joy Division fanno ballare e sudare tutto il locale.
Non è per nostalgia, né per un gusto kitsch. L’importanza della band di Manchester capitanata da Ian Curtis è a dir poco monumentale. In quelle tre ore si ritrova quasi tutta la musica prodotta dagli anni ’80 in avanti. Un gruppo che al di là della morte prematura e sconvolgente di un leader che non poteva essere sostituito in nessun modo e dell’iconografia indie che ne ha preso possesso negli anni a venire, ha cambiato per sempre un certo modo di fare musica. Di tutto questo Peter Hook ne è, se non il protagonista, uno dei maggiori responsabili. Per questo alla fine la nostalgia non conta, conta solo l’aver aggiunto una pietra miliare nell’album dei ricordi.
Fotografie a cura di Jacopo Beccalossi