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The Heavy Countdown #120: Boston Manor, Tigerwine, The Used

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Boston Manor – Glue
Che il pop punk fosse un ricordo lontano per i Boston Manor era evidente già da “Welcome to the Neighbourhood”, un disco che ha sicuramente segnato gli ascolti del mio 2018. Passato però l’effetto sorpresa di circa un paio di anni fa, cosa sarà rimasto ai giovani britannici? La rabbia. Lo schifo nei confronti di un mondo irrecuperabile c’è sempre, anche se meno primitivo e viscerale rispetto a prima, lasciando spazio alla consapevolezza che difficilmente si riuscirà a sopravvivere al male che ci circonda, una maturità che i Boston Manor riflettono in “Glue” (l’esempio più lampante è il singolo “Ratking”), proseguendo sì sulla strada del lavoro precedente, ma abbandonandosi molto spesso ad atmosfere più riflessive (tipo la splendida “On a High Ledge”), senza dimenticare da dove vengono (la chiusa con “Monolith” è esemplare).

Tigerwine – Nothing Is for You
Il secondo album dei Tigerwine, dopo la sorpresa di “Die With Your Tongue Out”, è di certo meno malato e schizzato del debutto del 2017, pur arrivando dritto in faccia come un treno merci. “Nothing Is for You”, senza per questo sacrificare di base il post-hardcore venato di grunge e alternative di tre anni orsono, è un lavoro più sognante e accessibile, che spesso si rifà a Thrice e Deftones (“Black Water”, “Hiss at the Sun”, “Complete”), accantonando la genuina follia di qualche tempo fa. Un male? Solo il tempo potrà dirlo.

Dead Lakes – New Language
Era da un po’ che non mi capitava tra le mani un disco di “biebercore” piacevole e frizzantino come questo EP dei Dead Lakes, un mix perfetto tra Issues, Palisades e Too Close To Touch. Il fiore all’occhiello della formazione (che non ha ancora pubblicato un full-length, ma diamo loro tutto il tempo che serve) è senza dubbio il vocalist Sumner Peterson, attorno alle cui perfomance i compagni di avventure imbastiscono un sound fresco e pop-oriented (“Close 2 Me” e la title track), già sentito un milione di volte per carità, ma sempre gradevole.

GroundCulture – How Well Do You Really Know Yourself?
“A blast from the past”, direbbero i colleghi d’Oltreoceno per descrivere la nuova fatica dei GroundCulture. Sì, perché di idee nuove in “How Well Do You Really Know Yourself?” (una domanda che la band sembra rivolgere più a se stessa, che al proprio pubblico) non ce ne sono, ma il passato torna prepotentemente a far capolino nelle pieghe di un post-hardcore ma soprattutto (nu)metalcore che andava di moda parecchi anni fa (prendete solo “Take My Breath Away” come riferimento). La ballad conclusiva “1974”, sebbene non coerente con il resto dell’opera, mette invece in luce le potenzialità del combo, che potrebbe benissimo intraprendere altre vie per scrivere una volta per tutte la propria storia con le proprie mani.

The Used – Heartwork
I cambi in line-up e le turbolenze degli ultimi anni in casa The Used si riflettono in “Heartwork”, ottavo album della formazione di Bert McCracken e soci. Purtroppo, la nuova creatura dei Nostri non ha una direzione ben precisa ed è un po’ troppo prolissa. Se da una parte i pezzi più pop prendono risvolti spesso banali (“Big, Wanna Be”, dove fanno tanto, troppo, i Fall Out Boy), dall’altra i brani in cui l’elettronica afferra il timone con violenza fanno ballare, e non è necessariamente un male (“Clean Cut Heals”), ma solo gli ospiti (Jason Aalon Butler in “Blow Me”, Travis Barker in “Obvious Blasé” e Caleb Shomo in “The Lottery”) riescono ad aggiungere il pepe per salvare un minimo la situazione.

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