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The Heavy Countdown #125: Bury Tomorrow, Carach Angren, Emmure

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Bury Tomorrow – Cannibal
Se “Black Flame” (2018) ci aveva lasciato un po’ con l’amaro in bocca, soprattutto dopo l’ottima prova del precedente “Earthbound”, il nuovissimo “Cannibal” riesce a convincerci di nuovo. L’ultimo album dei fratelli Winter-Bates infatti, trova un bilanciamento perfetto tra melodia ed aggressione, regalando quindi momenti veramente pesanti e melodie catchy da morire all’interno di quasi ogni singolo pezzo (“Choke”, la title track e “The Agonist”). Niente di nuovo sotto il sole, ma a livello di dosaggi degli elementi sopracitati, una boccata di aria per niente stantia nel metalcore moderno.

Long Distance Calling – How Do We Want to Live?
L’ambiziosità è una caratteristica che proprio non manca ai Long Distance Calling. Il quartetto teutonico, ormai votato al post rock strumentale (eccezion fatta per la splendida “Beyond Your Limits” e i numerosi monologhi presenti in questo ultimo disco) dopo l’esperimento di “Boundless” (2018), ha infatti da poco dato alle stampe un lavoro complesso e coraggioso, basato sul rapporto tra uomo e macchina, entrambi parte del problema ma al tempo stesso della soluzione per salvare il mondo, il cui motore primario, nel bene e nel male, rimane la curiosità. In “How Do We Want to Live?” le atmosfere floydiane sono preponderanti (a partire dalla opener “Curiosity, Pt.1”), ma l’approccio è decisamente moderno e fresco (“Fail / Opportunity”).

Carach Angren – Franckensteina Strataemontanus
Come suggerisce il titolo stesso, “Franckensteina Strataemontanus” è una divagazione sulla figura del mostro di Frankenstein, interpretato in una sorta di concept concettualmente e musicalmente malato come solo i Carach Angren sanno fare. La fiaba magniloquente, maligna, folle, orchestrale e cinematica della band non può che iniziare con la narrazione creepy di “Here In German Woodland”, andando a strizzare l’occhio spesso e volentieri anche ai Cradle Of Filth (“Scourged Ghoul Undead”) in un’opera symphonic black metal, nella quale per fortuna la qualità vince sui fronzoli.

Emmure – Hindsight
Ho sempre pensato che gli Emmure fossero la copia deathcore/metalcore tamarra e arrogante dei Korn, con i bassi se possibile ancora più pompati di quelli del buon Fieldy. Impressione del tutto confermata con “Hindsight”, ottavo lavoro dei Nostri, che oltre ad essere esattamente il tipico album degli Emmure (irritante per i più, divertente per chi passa oltre le mere provocazioni a cui Frankie Palmeri ci ha da sempre abituati), omaggia la formazione di Jonathan Davis e soci in diverse situazioni (citiamo solo “Thunder Mouth”).

Balance Breach – Dead End Diaries
Il full-length di esordio dei Balance Breach, “Dead End Diaries”, promette molto bene. A patto che il quintetto finlandese riesca a tenere botta e in qualche modo emergere dal mare magnum del melodic metalcore contemporaneo, in cui non basta di certo azzeccare un paio (o anche tre o quattro) di refrain giusti per emergere. Dopo un EP nel 2015, i Nostri hanno scaldato i motori a sufficienza per iniziare a far sentire la propria voce non solo a casa loro, ma anche oltre confine, con un disco pieno di pezzi orecchiabili ed equilibrati (da “Most of This” alla title track). La strada è lunga, ma partire con il piede giusto aiuta sempre.

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