Connect with us

Dischi

The Heavy Countdown #113: Polaris, Ozzy Osbourne, The Amity Affliction

Published

on

Polaris – The Death Of Me
Vero, i Polaris ci hanno perso in ferocia e aggressione frontale rispetto agli esordi (se escludiamo il singolo “Hypermania” e qualche altro episodio), ma non facciamogliene una colpa. Alla seconda fatica in studio (senza contare il micidiale EP del 2016 “Guilt & The Grief”), la formazione australiana, pur a costo di ripetere una formula collaudatissima sia da loro stessi che da altri colleghi (Architects in particolar modo), dimostra che il compromesso è la chiave del successo. C’è da dire che i Nostri non sono nuovi ai pezzi catchy in cui la melodia la fa da padrone, ma in “The Death of Me”, aggiungendo anche un focus speciale su sentimenti intimi e privati, ma in cui molti si possono ritrovare (“Masochist” e “Vagabond”), trovano un equilibrio invidiabile e nuovi anthem da cantare a squarciagola ai loro concerti (vedi “Creatures of Habit”).

Sightless Pit – Grave of a Dog
Fino a poco tempo fa pensavamo che non potesse esistere niente di più angosciante degli split di The Body e Full of Hell. Venerdì scorso abbiamo scoperto che ci sbagliavamo, e di grosso. infatti i Sightless Pit, oltre a contare tra le proprie fila due membri delle band sopracitate, dragano i pozzi più cupi (metafora per nulla casuale) della disperazione umana arruolando pure Kristin Hayter, aka Lingua Ignota, una degli artisti underground più devastanti in circolazione. “Grave of a Dog” non è un ascolto facile (che ve lo dico a fare), ma è un tassello imperdibile per tutti gli amanti delle sonorità asfittiche e asfissianti, tra industrial, elettronica, grind ed eco classiche ad opera della Hayter.

Ozzy Osbourne – Ordinary Man
Riassumendo in estrema sintesi, “Ordinary Man” è una raccolta di confessioni impenitenti di un settantenne che purtroppo tanto arzillo non è più, ma che piuttosto che perdere il vizio si concede pure due canzoni con Post Malone. Detto questo, e al netto dell’autoreferenzialità neanche troppo sorprendente considerando la quantità di materiale solista che Ozzy ha tirato fuori negli anni, il dodicesimo album dell’ex Black Sabbath è la celebrazione e il lascito di una carriera pluridecennale, che a volte sa tanto di nostalgica commemorazione su un viale del tramonto illuminato da luci sempre più fioche (e la toccante title-track, impreziosita da un feat di Sir Elton John, è lì a ricordarcelo).

The Amity Affliction – Everyone Loves You… Once You Leave Them
In un’epoca storica di passi indietro, anche e soprattutto musicali (ne abbiamo parlato pure nella scorsa Heavy Countdown), gli Amity Affliction, dopo l’esperimento a dir poco malriuscito del precedente “Misery” (2018), ritornano con la coda tra le gambe ma con la voglia di farsi perdonare dai fan di vecchia data. Infatti, il settimo disco degli australiani presenta un maggior spessore e più coerenza rispetto al recente passato (“All My Friends Are Dead” è forse uno dei pezzi più pesanti che abbiano mai rilasciato), ma purtroppo qualche passo falso in salsa pop sintetica c’è ancora (ascoltate “Aloneliness” e dimenticatela subito).

The Word Alive – Monomania
Il melodic metalcore contemporaneo (o se preferite, Biebercore) ha come peggior difetto la prevedibilità, una caratteristica che colpisce molte formazioni del genere, e da cui neanche molti fuoriclasse sono immuni. I The World Alive, giunti al sesto full-length in carriera, continuano imperterriti sulla strada del precedente “Violent Noise” (2018), proponendo un sound attuale e fresco (prendete la title track o “No Way Out” per esempio), anche se già sentito da molti altri, tipo i Too Close To Touch. Ma come per questi ultimi, anche per i The World Alive il fiore all’occhiello è la versatilità del vocalist Telle Smith, una qualità mica da poco.

DISCHI