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The Heavy Countdown #124: Protest the Hero, Lamb of God, Make Them Suffer

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Protest the Hero – Palimpsest
“Palimpsest” è di certo il disco più difficile dei Protest the Hero. E non per il pubblico, perché pur senza tradire la propria natura (“Gardenias”), il quinto album dei canadesi offre spunti interessanti e accessibili anche per i profani (e qui gli esempi si sprecano, da “From the Sky” a “Rivet”, passando per “All Hands”), ma per la formazione stessa. Sono passati ben sette anni da “Volition” (con in mezzo un EP e qualche cambio in line-up), e Rody Walker e soci, si trovano nella posizione di dimostrare al mondo, almeno alla parte che bazzica il prog/mathcore, quanto siano ancora rilevanti. E ci riescono, seppur con pezzi che seguono schemi più lineari ma non per questo meno epici rispetto al passato. Date un’occhiata anche ai testi, incentrati sulla storia americana e sui personaggi (migranti, per lo più) che l’hanno fatta grande.

Lamb of God – Lamb of God
“Lamb of God” potrebbe essere benissimo visto come un reset per la band di Randy Blythe, dopo il disco della catarsi e della rinascita (“VII: Sturm und Drang”, 2015) e l’addio definitivo di Chris Adler. Basti pensare al titolo stesso, e alla copertina, elementi che sembrano voler ricalcare il passato dello storico combo senza aggiungere nulla di nuovo, ma anzi, crogiolandosi in quanto già è stato detto, scritto, suonato e cantato anni, se non decenni, fa. Il che non è un male, perché dai Lamb of God non ci si può aspettare nulla di meno. Ma neanche nulla di più, il che, in questo caso, è per l’appunto un bene (dimostrazione “Memento Mori” e la successiva “Checkmate”).

Aversions Crown – Hell Will Come for Us All
C’è chi ha parlato di rebranding per gli Aversions Crown. A seguito dei cambi tempestosi in line-up, e del conseguente “Xenocide” (2017), era evidente che per la formazione di Brisbane fosse necessario intraprendere nuovi percorsi. Ecco spiegato l’addio al cosiddetto “aliencore” che da sempre ha contraddistinto le uscite dei Nostri, fatto che portato scompiglio tra gli aficionados del genere e i fan della prima ora degli AC, e che ha lasciato intuire un cambio di rotta verso il deathcore più commerciale (leggi Thy Art Is Murder o Fit For An Autopsy). In realtà, la virata si ferma solo all’estetica, perché gli australiani continuano ancora a pestare forte come da buona abitudine (ascoltate “Born in the Gutter” e la title track, tanto per).

Make Them Suffer – How To Survive a Funeral
Ricordo molto bene l’uscita di “Worlds Apart”, anche se sono passati quasi tre anni da allora, e attendevo con ansia la pubblicazione del quarto album dei Make Them Suffer. Che dire, “How To Survive a Funeral” è, come suggerisce il titolo stesso, un lavoro molto più arrabbiato e violento del precedente (“Bones” e Fake Your Own Death” sono tra i pezzi più pesanti della discografia dei Nostri) e anche molto più confusionario e deprimente nelle tematiche delle lyrics e in alcuni cambi di rotta (“The Attendant”), ma molto meno sognante e cinematico (anche se ad ascoltare “Drown With Me” ed “Erase Me” si direbbe il contrario). Un piccolo passo indietro per una gruppo che, sentendo di avere molto da dire ma di non avere più niente da dimostrare, si addormenta un po’ troppo sugli allori.

Hollow Front – Loose Threads
Dopo un paio di EP, ecco il full-length di debutto degli Hollow Front, una band che pur essendo agli inizi, sta facendo numeri importanti (soprattutto su YouTube). Il melodic metalcore/post-hardcore del giovane combo, come da previsioni, accarezza sia la componente più heavy della propria proposta (“Vagabond” e “P.A.N.I.C.” sono sicuramente tra i brani più tosti del lotto), sia (soprattutto) la vena più catchy e contemporanea (“Serendipity”, e la maggior parte dei brani di “Loose Threads”). Niente di nuovo sotto il sole, ma un ascolto gradevole se avete meno di 30 anni.

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