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I 30 migliori album metal usciti nel 2021

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Nel 2021 sono usciti moltissimi dischi. Diversi album metal li troverete a priori nelle classifiche di appassionati e testate specialistiche, tuttavia alcune saranno inevitabilmente delle forzature.

Sì perché nonostante i nomi grossi siano tornati in massa sugli scaffali, la qualità oggettiva delle release spesso ha lasciato a desiderare. I nomi? Iron Maiden, Helloween, Dream Theater, Bullet For My Valentine, e potremmo proseguire (ci siam rimasti male anche per Sleep Token, Eidola, Don Broco, Leprous e molto altro sì). Intendiamoci, non che siano state pubblicate delle ciofeche, ma nulla che valga la pena ricordare in sede di “best of” di fine anno ecco.

Di contro ci sono state rivelazioni sorprendenti, conferme importanti, scelte stilistiche coraggiose e, complessivamente, moltissima musica buona che vale la pena mettere in evidenza.

>> (tutti i dischi analizzati quest’anno in) THE HEAVY COUNTDOWN – GLI ARTICOLI
>> (servisse dell’underground da ascoltare) THE HEAVY COUNTDOWN 2021 – LA PLAYLIST

Qui sotto, in rigoroso ordine alfabetico, i 30 dischi metal che meritano un posto nella chart 2021 di fine anno.
A cura di Chiara Borloni e Jacopo Casati

Architects – For Those That Wish To Exist – Il giorno della pubblicazione di “For Those That Wish To Exist” mi chiedevo se la brusca virata degli Architects verso quelle sonorità electro-alternative metal tanto care ai (pen)ultimi Bring Me the Horizon avrebbe pagato, e la risposta è sì, almeno da un punto di vista meramente commerciale. La nuova creatura di Carter e soci è infatti finita dritta al primo posto della classifica UK (e non solo). Lo smorzamento dei toni (ma non delle lyrics) e la grandiosità degli arrangiamenti (gli inserti orchestrali ricorrono per tutto l’album, specie in pezzi come “Black Lungs” e “Dead Butterflies”), oltre a brani simbolo del nuovo corso (il singolo “Animals” su tutti) e a una carrellata di ospiti eccelsi (l’urlo di Simon Neil in “Goliath” riecheggerà a lungo nei nostri auricolari), rappresentano l’evidenza di una scelta anche comprensibile per una band che è stata per anni lì lì dal fare il grande salto, e che ora lo fa con un full-length formalmente perfetto (anche se ammettiamolo, troppo lungo). Ma gli Architects, per citare i cugini BMTH, sono stati “blessed with a curse”. Quella di essere capaci di molto più, oltre rivestire il ruolo di semplici inseguitori (bravissimi, per carità). c.b.
Beartooth – Below – Devo ammettere di essermi sbagliata. E dopo l’ascolto di “Below”, non potrei esserne più felice. Con l’uscita di “Disease” (2018) avevo predetto una china in discesa per i Beartooth, con un addomesticamento al limite del pop (punk). Bene, il quarto full-length di Caleb Shomo e soci, è esattamente il contrario, fin dalla copertina. Anche se i refrain super catchy rimangono il maggiore punto di contatto con il passato, i Nostri mostrano il loro lato più cattivo e violento (ma i blast beat di “Devastation” e “Dominate”?), sgasando a folle velocità solo per riprendere il fiato con qualche ritornello killer (“Fed Up”). Zero fronzoli, zero elettronica, qualche riempitivo (“Phantom Pain”, “The Answer”), ma per il resto, se mi è concessa la licenza poetica, “figata” è l’unico termine tecnico che mi venga in mente per descrivere “Below” (con a chiosa di tutto, “The Last Riff”, perfetta nella sua posizione in tracklist). c.b.
Between The Buried and Me – Colors II – Per i Between the Buried and Me “Colors II” più che un full length o un mero seguito di “Colors”, è uno statement. A 14 anni suonati dalla pubblicazione dell’album che ha fatto conoscere e riconoscere globalmente il combo del North Carolina nell’Olimpo progressive metal contemporaneo, per Tommy Rogers e compagni è arrivato il momento di resettare gli orologi sul futuro e sul nuovo significato della propria proposta. Posto che dipanare in poche righe un’opera dei BTBAM è un’impresa impossibile, “Colors II”, come sempre, si posiziona su livelli altissimi, inanellando un pezzo dietro l’altro di pura arte e perizia tecnica, tra progressive, death metal, eco settantiane, jazz e addirittura country e folk, ponendosi alla stregua di un grido di libertà, soprattutto dalle etichette spesso appiccicate a casaccio e soprattutto dopo più di un anno di pandemia e di conseguente stallo della musica live (cito solo “Fix the Error” e la colossale fin dal titolo “Human Is Hell (Another One With Love))”. c.b.
Chevelle – Niratias – Sembra impossibile ma sono già trascorsi cinque anni da “The North Corridor”, l’ultimo disco degli Chevelle. I fratelli Loeffler quindi, prendendosi tutto il tempo di cui avevano bisogno, e anche di più, tirano fuori dal cilindro un lavoro davvero degno di nota, qualcosa che di certo li salverà dal dimenticatoio in cui rischiavano di cadere. “Nothing Is Real and This Is a Simulation” è un concept dalle tematiche molto attuali, ma portando avanti l’impatto frontale della precedente fatica, rispolvera (svecchiandolo) l’alternative metal che andava di moda qualche tempo fa (intorno ai primi anni 2000 per intenderci), ma che ad ascoltare “Niratias”, sembra essere invecchiato molto bene (prendete solo “Mars Simula”). c.b.
Cradle of Filth – Existence Is Futile – Qualche cambio in line-up non ha minato la tardiva ma felice parabola nuovamente ascendente dei Cradle Of Filth, iniziata con l’ultima manciata di album (per essere precisi, da “Hammer of the Witches”, 2015). Anche “Existence Is Futile” è una cavalcata grandiosa e magniloquente, basata sulla proposta barocca e orchestrale da sempre trademark dei Nostri, ma incredibilmente ariosa e accessibile grazie a ganci melodici piazzati a regola d’arte (“Necromantic Fantasies”, “Crawling King Chaos”). Per non parlare di Dani, il solito vecchio lupo che non sembra voler perdere né il pelo né il vizio. c.b.
Devil Sold His Soul – Loss – Ritorno notevolissimo, in equilibrio tra emo e post-hardcore, con composizioni spesso lunghe e imprevedibili nello sviluppo. Sembrano fuori tempo massimo inizialmente, ma ascoltando il lavoro si capisce che il talento non li ha abbandonati nemmeno 7 anni dopo l’ultima emissione (anche se era un EP e non un full length). Il trittico Tateishi / The Narcissist / Beyond Reach vi darà rapidamente l’idea di ciò che i DSHS possono offrirci ancora oggi. j.c.
Durbin – The Beast Awakens – Per quanto sia oramai evidente da tempo il mio debole artistico per questo ragazzaccio, mai avrei pensato di sentirlo a questi livelli su un album che è totalmente imperdibile per (i vecchi) appassionati di metallo classico. Epicità e dosi di heavy ottantiano a profusione in un lavoro che trasuda passione da ogni poro. Lasciate stare i nomi grossi, il tradizionalismo quest’anno passa da qui (e in alcune tracce del solista di Todd La Torre “Rejoice In The Suffering”). j.c.
Eldritch – Eos – Rimangono la garanzia assoluta made in Italy di quel connubio prog-power che tanto andava forte appena prima e subito dopo il cambio di millennio. La capacità tecnico-compositiva dei Nostri non ha perso smalto e la celebrazione dei trent’anni di carriera non poteva avvenire che con un ottimo disco. L’ennesimo. j.c.
Employed to Serve – Conquering – I cattivissimi Employed to Serve (soprattutto la vocalist Justine Jones) cementano il loro status grazie a “Conquering”, quarto album in studio, in cui ribadiscono il concetto che il loro hardcore metalizzato, nella scena contemporanea, ha pochi pari in termini di ferocia (“The Mistake”), e in cui continuano a miscelare sapientemente le reminiscenze thrash (“Twist the Blade”, “Mark of the Grave”), offrendo come se non bastasse efficaci ed azzeccati ganci melodici (“Eternal Forward Motion”). c.b.
Erra – Erra – Se non escono Periphery, August Burns Red, Northlane e affini, ci pensano gli Erra a confezionare l’album dell’anno per gli amanti di determinate sonorità. Che si sia di fronte all’opera più ambiziosa della band dell’Alabama lo si capisce in fretta, ma è nella seconda metà del disco che si raggiungono vette creative e qualitative assolute. Centro perfetto. j.c.
Every Time I Die – Radical – Qualunque tipo di stress abbiate bisogno di scaricare, potete stare certi che gli Every Time I Die sono là ad aspettarvi in quel porto sicuro in cui dimenticare tutto, almeno per un’oretta scarsa di running time. Nonostante mancassero da tanto, troppo tempo (esattamente dal 2016, anno in cui ci avevano regalato “Low Teens”), il nono full-length della band di Buffalo cancella con un colpo di spugna gli anni di silenzio alle proprie spalle, traducendosi in un lavoro solidissimo, un esempio magistrale di equilibrio perfetto tra ferocia e melodia (prendete solo “Post-Boredom”, “White Void”, “Thing With Feathers”). L’ennesima dimostrazione di potere degli ETID. c.b.
God Is An Astronaut – Ghost Tapes #10 – Impareggiabili nel creare soundscape, come fa figo definirli oggi, gli irlandesi God Is An Astronaut portano avanti fieri il loro post-rock (anche se negli episodi più cupi e pesanti non è sbagliato parlare di post-metal), grazie al quale l’immaginazione può spiccare il volo, e anche la mente più stanca può trovare ristoro (“Adrift”), per poi trascinarti nelle viscere della Terra (“Burial”). “Ghost Tapes #10” è un viaggio su un ottovolante emozionale in cui è difficile capire la differenza tra suolo e cielo, specie quando ci si trova con la testa sottosopra. c.b.
Gojira – Fortitude – Dall’uscita di “Magma” (2016), ogni anno, in certi ambiti, non si faceva altro che ripetere “oh dai vedrai che finalmente è la volta buona che esce il nuovo disco dei Gojira”. Ed effettivamente, alla buonora, è successo. Dire che “Fortitude” fosse molto atteso è un eufemismo, e dato il consenso che ha riscosso in ogni angolo del globo, non possiamo di certo lamentarci, considerando che ormai i francesi sono tra le maggiori garanzie del metallo moderno. Ma se “Magma” ha segnato una svolta (stilistica, e non solo) nella carriera dei fratelli Duplantier, in questa ultima opera le strutture del lavoro precedente a volte sembrano riaffiorare con estrema convinzione (“Into the Storm”). Di contro un maggiore focus sulla parte ritmica (verrebbe da dire talvolta tribale, come in “Amazonia”, con echi Sepulturi-iani del 1996) fa prendere una nuova (per i Gojira) strada interessante a “Fortitude”: “Hold On” e “The Chant” ne sono la dimostrazione. c.b.
Hail the Sun – New Age Filth – È sempre bello ritrovare sul proprio percorso delle vecchie conoscenze. E se queste vecchie conoscenze sono gli Hail the Sun, beh, sappiamo che di sicuro non si sta per ascoltare un brutto disco. Dopo il folgorante “Mental Knife” (2018), “New Age Filth” arriva una volta per tutte a incidere su pietra la posizione della formazione nell’Olimpo swancore. Iniziando dalla opener “Domino”, una vera e propria dichiarazione di intenti, che nel giro di poco più di quattro minuti sciorina tutto ciò che di buono ha da offrire il suddetto swancore nel 2021, ma anche, se vogliamo dirla tutta, un rischio, perché è difficile dire di più e di meglio nei pezzi successivi. Ma gli HTS in qualche modo lo fanno, con il loro modo sfaccettato di essere diretti, che può essere inteso sia nel senso di catchy (“Slander”), che violento all’ennesima potenza (“Parasitic Cleanse”). c.b.
Harakiri For The Sky – Mære – Un genere cangiante come il post black metal ha ancora molto da dire. Gli Harakiri For The Sky, dopo mille ritardi causa pandemia, danno alle stampe il loro lavoro più accessibile, “Maere”. E date le premesse di “Arson” (2018) era impossibile pensare che gli austriaci potessero partorire qualcosa di qualitativamente inferiore. L’energia al servizio della poesia (o se vogliamo, tradotta in poesia), i riff memorabili e a loro modo orecchiabili, nel senso (ovvio) più genuino e meno piacione del termine (vedi “Sing for the Damage We’ve Done” e “I’m All About the Dusk”), sono le carte vincenti di un’opera che nel suo genere è senza dubbio tra i dischi migliori del 2021. c.b.
Ice Nine Kills – The Silver Scream 2: Welcome to Horrorwood – My Chemical Romance, Avenged Sevenfold, schizzi ai confini col mathcore, growl e anche deathcore. Tematiche ultra-horror, nervosismi esasperati e giri melodici quando meno ce lo si aspetta. Insomma detto così sembra un pastone insapore. Invece il nuovo degli Ice Nine Kills è senza dubbi uno degli album più interessanti del 2021 in ambito metalcore. Mi ci sono avvicinato con zero aspettative e sono stato spazzato via dalla creatività e dalla cura del dettaglio che Spencer Charnas (mainman del gruppo) ha riversato in questo progetto. Certo, non per tutti, a me dell’horror in generale fotte sega, ma potenzialmente esplosivo per posizionare sulla mappa del mainstream gli INK, in una posizione da outsider assoluti. E con pieno merito. j.c.
Jinjer – Wallflowers – Dopo “Vortex”, il primo singolo estratto da “Wallflowers”, e dopo l’hype spropositata che ha preceduto l’uscita del quarto sigillo firmato Jinjer, eravamo in tanti ad aspettarci una svolta più “mainstream” per il combo ucraino. Ma il malessere di fondo, la minacciosità, i cambi vorticosi (per l’appunto) di tempo e stile, unito a una brutalità bestiale (prendete solo “Call Me a Symbol”, “Copycat” e “Mediator”), insieme alle performance sempre più disumane di Tatiana Shmayluk (che spesso fa sparire dietro il suo talento e la sua presenza i compagni di avventure, pur essendo in realtà altrettanto brillanti, ognuno con il proprio strumento) fanno di “Wallflowers” un album ben distante da qualsiasi velleità “commerciale”, ma ben propenso ad accaparrarsi nuovi consensi, oltre a quelli del seguito della prima ora. c.b.
Liquid Tension Experiment – Lte3 – Insomma i primi due erano meglio. E grazie al cazzo avevamo anche noi 20 anni in meno. Ora i ragazzacci si son ritrovati e han ripreso in mano quel che facevano allora. Onanismo strumentale? E’ ovvio, se non ci fosse qui non avrebbe senso da nessun’altra parte. Intrattiene? Certo, se ti emozioni a sentire le rullate e i tom di Portnoy insieme ai riff di Petrucci ti intratterrà eccome. Sono vecchi? Sì. Pure noi. Ascolto obbligato per i fan del prog. j.c.
Mastodon – Hushed and Grim – E’ probabilmente l’album migliore che la band pubblica da “Crack The Skye”. Basterebbe questo per portare “Hushed and Grim” nell’olimpo del metal mainstream 2021. In realtà c’è molto di più dentro questa (lunghissima) release, un compendio clamoroso di tutta la carriera dei Nostri, dal progressive rock fino allo sludge e agli assalti più metallosi degli esordi. Una varietà compositiva, creativa e una competenza esecutiva che lasciano sbalorditi (sentite in sequenza “The Beast” e “Dagger” per conferme), a conferma del fatto che i Mastodon siano una delle realtà più rilevanti di tutta la musica hard & heavy del nuovo millennio. j.c.
Obscura – A Valediction – Steffen Kummerer in questi anni ci ha abituato bene. Ma a questo giro, con “A Valediction“, il Nostro ha deciso di strafare. Non solo riporta in formazione due assoluti fuoriclasse come Christian Münzner e Jeroen Paul Thesseling, ma riesce anche a confezionare l’album più “accessibile” possibile ai profani che ancora non fossero a conoscenza del Verbo della band tedesca, specialmente alla produzione completamente “made in Sweden”. Chi apprezza gli assalti all’arma bianca senza variazioni sul tema si rivolga altrove; chi invece si sente orfano (da 20 anni oramai, sic) della parola di Evil Chuck, troverà nuovamente una motivazione per godersi uno degli album dell’anno in campo extreme metal. j.c.
Phinehas – The Fire Itself – Non sembra ma i Phinehas sono già arrivati al quinto full-length in carriera, un traguardo importante e i californiani ne sono ben consci. “The Fire Itself” infatti si presenta come il tipico disco melodic metalcore, con pesanti accenti (melodic) post-hardcore, ma non si esaurisce ai ritornelli tanto facili da recepire quanto estremamente dimenticabili dopo pochi minuti, ma infarcisce il tutto con un buon guitar work, il che oltre a far onore ai Nostri, li rende anche una realtà solida e sempre più credibile (“Eternally Apart”, la title track, oppure “Defining Moments”). c.b.
Soen – Imperial – Un’opera maestosa e trascinante, catchy (nell’accezione ovviamente meno banale possibile) ma al tempo stesso atmosferica, imperiosa e sofisticata, senza per questo mai risultare pretenziosa. Insomma, tutto ciò non è di certo una novità per la premiata ditta Soen, ma avercene. Il quinto full-length dei veterani svedesi del progressive metal incarna al meglio la raffinatezza derivante da una ricerca sonora che non conosce requie, capace di calibrare aggressività e melodia con una maestria difficili da reperire in giro (vedi “Lumerian” e “Monarch”). c.b.
Softspoken – Where the Heart Belongs – Attenzione perché i Softspoken potrebbero essere la next big thing del post-hardcore/metalcore (se prendiamo in prestito la definizione che si è appiccicata in autonomia la formazione del Kentucky), nonostante abbiano all’attivo già due full-length. L’EP “Where the Heart Belongs” però, arriva come un fulmine a ciel sereno, rischiarando non solo le scene sopracitate, ma anche quella del progressive metal contemporaneo, a cui i Nostri devono davvero tanto. Questi ragazzi hanno davvero tutto ciò che serve: tecnica, songwriting, equilibrio tra aggressione e melodia, un vocalist validissimo e i pezzi (uno su tutti, la title track). Se questo è il biglietto di sola andata per il successo, non possiamo che aspettarci grandi cose per il futuro. c.b.
Spiritbox – Eternal Blue – C’è da dire che a volte troppo hype può essere deleterio. Grazie a dio, non è stato il caso degli Spiritbox, all’esordio discografico con “Eternal Blue”, anche se abbiamo avuto modo di conoscerli e apprezzarli da quasi un anno a questa parte grazie a singoli potentissimi (“Holy Roller”, “Circle With Me”). Per quanto il melodic progcore dei canadesi sia di livello ma abbastanza standard per il genere di appartenenza e in linea con i tempi che corrono, la vera forza del combo è la frontwoman Courtney LaPlante, una furia nello screaming (prendete la già citata “Holy Roller”, che poi è il pezzo più atipico dell’opera), ma al tempo stesso delicata e pop nei brani più melodici di “Eternal Blue”, che alla fine sono quelli che fanno la differenza (“Secret Garden”, “We Live in a Strange World”). Un lavoro che farà parlare ancora a lungo di sé. c.b.
Tetrarch – Unstable – Dicono che non sia mai il caso di giudicare un libro dalla copertina, ma “Unstable” è nu metal fin dalla cover, e fin nel midollo. Sebbene il revival di quelle sonorità che hanno fatto impazzire più o meno tutti tra le fine degli anni ’90 e i primi 2000 non accenni ad affievolirsi, e anzi, torni a riproporsi ciclicamente come una pietanza indigesta, nel caso dei Tetrarch, per fortuna, il senso di déjà-vu è per una volta piacevole. Il secondo disco del combo statunitense, grazie a una veste e una produzione contemporanea, riesce a svecchiare e fare propri riferimenti “antichi” (Korn, Slipknot, ma anche Linkin Park) sfoderando ganci melodici affilatissimi (“Take a Look Inside”, “Sick of You”, “You Never Listen”). c.b.
Tremonti – Marching In Time – Il quinto studio album di Mark Tremonti, è decisamente superiore ai predecessori, fatta eccezione per il bellissimo debutto “All I Was” del 2012. Si tratta con ogni probabilità del disco maggiormente organico inciso dal chitarrista di Creed ed Alter Bridge, un flusso perfettamente coordinato di emozioni, aggressività, epicità e melodie. Unanimemente riconosciuto come tra i guitar player più influenti del nuovo secolo, Mark è probabilmente arrivato qui all’apice creativo con questo monolitico lavoro. j.c.
Trivium – In the Court of the Dragon – Arriverà un momento in cui si dovrà ammettere che i Trivium sono riusciti a diventare la più convincente “classic” metal band di tutte quelle uscite dal movimento metalcore dei primi Duemila. Il sodalizio col produttore Josh Wilbur (non a caso iniziato proprio nel 2017 con “TSATS”) ha reso i Trivium una macchina da guerra impegnata in scorribande thrash, hardcore, a tratti progcore e, a questo giro, ancora più epiche e ricercate rispetto all’eccellente predecessore “What the Dead Men Say”. Nel nuovo album il livello compositivo raggiunge vette clamorose, come in “Like A Sword Over Damocles”, “A Crisis of Revelation”, “Fall Into Your Hands” e “The Shadow Of The Abattoir”, le cui divagazioni riportano alla mente gli spunti emersi molti anni fa nelle title track di “Shogun” (2008) e addirittura nella strumentale “The Crusade” (2006). Un album che conferma il quartetto mai così in cima alla catena alimentare della scena heavy moderna in termini di qualità compositiva e creatività. j.c.
Turnstile – Glow On – Come già scritto in occasione dell’uscita del precedente “Time & Space” (2018), il vero punto di forza dei Turnstile è la genuinità. “Glow On” rappresenta ciò di cui gli amanti dei concerti underground hanno più bisogno: un live in un club minuscolo, sporco, maleodorante e rovente, con un’acustica pessima. Un’esperienza che può capire solo chi se ne cibava avidamente nel mondo “prima”. Excursus a parte, il successo della terza fatica dei Turnstile risiede nelle sperimentazioni, oltre che nella vena melodica vibrante sotto la superficie (retro) hardcore (prendete “Endless”), in un amore malcelato per gli elementi percussivi (“Blackout”, “Don’t Play”), e in quella componente “dreamy” presente fin dalle nuvolette della copertina, e che salta spesso fuori (“Lonely Dezires”). c.b.
Venues – Solace – Tra le sorprese del New Core (per usare una definizione che gli aficionados delle playlist Spotify apprezzeranno e coglieranno al volo), anche se quasi tutti i brani presenti in “Solace” sono già usciti i mesi scorsi come singoli, non possiamo non citare i Venues. La nuova fatica della formazione tedesca è uno zuccherino piacevole (“Whydah Gally”, “Shifting Colors”) che va giù che è una meraviglia, grazie all’alternanza gradevole e bilanciata tra riff e inserti elettronici, e tra voce maschile e femminile. c.b.
Whitechapel – Kin – Può una band deathcore ambire a ridefinire il classic metal contemporaneo? E’ quel che stan provando a fare i Whitechapel, già da due dischi a questa parte. Che il risultato finale arrida o meno ai Nostri, l’opera di riposizionamento che Phil Bozeman e soci stanno operando ha dell’ammirevole. Anzi oramai sono le tirate vecchia scuola con blast beat ad apparire sempre più fuori luogo, grazie a una ridefinizione del sound a cavallo tra Stone Sour e un sound rock ad ampio respiro (sentire “Anticure” per delucidazioni) che possa far pensare addirittura ai Katatonia, che punta su atmosfere e classicità piuttosto che insistere su territori oramai aridi anche per chi ha, molti anni or sono, inventato un intero sotto genere. j.c.

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