Whitechapel – The Valley
Dopo “Mark of the Blade” (2016), il primo lavoro dei Whitechapel a introdurre significative dosi di clean singing nel deathcore, la curiosità per la mossa successiva della band capitanata da Phil Bozeman era a dir poco alle stelle. Come da copione, “The Valley” si presenta come l’opera più ambiziosa nella discografia dei Nostri, basandosi su un concept molto personale (l’infanzia tormentata del frontman), narrata con uno stile che è il naturale prosieguo dell’album precedente, con ancora ottime prove di cantato pulito (vedi la toccante “Hickory Creek”). Un difetto? L’eccessivo attaccamento al passato, come dimostrano pezzi ormai sorpassati come “The Other Side”.
Devin Townsend – Empath
Sul folle genio creativo di Devin Townsend è già stato detto e scritto di tutto, tanto che anche per “Empath”, più che le parole, bisognerebbe lasciar parlare solo ed esclusivamente la musica. In brevissimo, la prima fatica solista dopo la soppressione del Devin Townsend Project è un lavoro non convenzionale, vario, epico, schizzato, impreziosito da ospiti illustri (da Steve Vai a Anneke Van Giersbergen), in cui si passa con disinvoltura dal prog all’ambient, dal free jazz al death metal, dalla classica al pop. Ogni canzone di “Empath” è un microcosmo a se stante, ma in cui convivono elementi compatibili con gli altri pezzi (prendete la conclusiva “Singularity”, che con i suoi 23 minuti potrebbe benissimo fare un album da sé).
I Prevail – Trauma
Se “Lifelines” (2016) era un disco pieno di potenziali singoli a cavallo tra pop punk e metalcore, in “Trauma” gli I Prevail mantengono l’amore per le sonorità radiofoniche, ma approcciando in maniera diversa e più moderna il loro essere terribilmente catchy, aumentando le percentuali di elettronica e sondando una vena rapcore del tutto inedita per la giovane band, cercando disperatamente di scollarsi di dosso l’etichetta di emuli degli A Day To Remember (e il singolo “Paranoid”, tanto per citare un esempio, è lì a dimostrarcelo). L’unica nota dolente rimangono sempre le ballad (lo zucchero di “Every Time You Live” è indigesto a dir poco), ma se siete alla ricerca di divertimento facile e immediato, “Trauma” è qui che vi aspetta.
Brutus – Nest
Vi ricordate i Brutus? Li avevamo lasciati neanche due anni fa a quella scarica elettrica che era “Burst”, che tornano a deliziare le nostre orecchie con un’altra chicca. “Nest” è il perfetto sequel dell’album di debutto del trio capitanato dalla straordinaria vocalist/batterista Stefanie Mannaerts, in un tripudio di sonorità post-(metal, hardcore, black) in grado di coesistere in uno spazio ristretto ma mai asfittico, riuscendo anche a non spintonarsi. E a risultare convincenti anche quando i ritmi si rilassano (leggi alla voce “Space”).
Moon Tooth – Crux
I Moon Tooth avevano già lasciato il segno nel 2016 con il loro primo full-length, “Chromaparagon”, e oggi, grazie a “Crux”, si attestano sui livelli altissimi dell’esordio. Il sound dei Nostri chiama in causa progressive metal, metalcore, fusion e infusioni blues, traducendo il tutto in energia pura, magicamente accessibile nella sua varietà e complessità. E il bello dei MT è che riescono a far convivere le loro molteplici ispirazioni in tutti i brani di “Crux” (tra gli esempi più riusciti “Through Ash” e la title track), accompagnando l’ascoltatore in un perfetto climax emotivo.