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Life On Earth: isolamento emotivo ed isolamento geografico

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Ieri, mentre correvo lungo le strade di campagna poco lontane da casa mia, fra i brani della playlist di Spotify e shuttle velocissimi di viaggi mentali, pensavo a quante forme di isolamento possano esistere. Non sono riuscita a darmi una risposta immediata ma sono subito apparse davanti agli occhi alcune diapositive della mia vita, da settembre ad oggi. Il trasferimento a Milano, patria per eccellenza dello scorrimento fluido e agevolato delle relazioni, delle carriere, dei contatti e degli incontri, ha innestato il seme di una riflessione che ho deciso di rinominare proprio “isolamento emotivo”. In seguito al mix letale di vissuti personali recenti non positivi, di anni di mal sedato horror vacui, di un’insicurezza cronica e di cambiamenti drastici in pochissimo tempo, ho realizzato che, a fine giornata, l’aprire e il chiudere la porta di casa non rappresentava soltanto un gesto meccanico ma un’operazione psicofisica netta e voluta.

Sentirsi protetti tra le mura domestiche, concedersi più o meno consciamente, al di fuori, attimi di leggerezza e divertimento, sulla base delle proprie passioni: i concerti, le ore in libreria, la visita alle mostre, i colori di un mercatino vintage. All’apparenza, agli occhi dell’altro, di chi è vicino, sembra tutto regolare. Sorridere, confrontarsi, raccontarsi, scherzare. L’isolamento emotivo, però, agisce da dentro. È una corda invisibile che stringe e fa arretrare inevitabilmente. Ci si avvicina quel tanto che basta per ritrarsi. L’incapacità contingente di riempire il vuoto percepito, la consapevolezza – e spesso il senso di colpa – di non poter donare e donarsi di più. Non si può invitare qualcuno a prendere il caffè se il barattolo che lo contiene è ormai trasparente, se la moka, graziosa come una bomboniera sul bancone della cucina, è predisposta per una tazzina.

Pensavo a questo, mentre correvo e mentre ascoltavo un brano che ho riscoperto di recente, uno di quei brani che quando spuntano fuori dopo anni, lo fanno con una missione ad alto volume. Tutto ciò che ho descritto sopra è il risultato di esperienze che segnano come linee di confine. “This is not the love you’ve had before/ This is something else” – canta Gary Lightbody in “Life On Earth” degli Snow Patrol. La traccia apripista di “Wildness”, pubblicato nel 2018 dalla band irlandese, tratta anche di giorni straordinari, nell’accezione più letterale dell’attributo, giorni fuori dall’ordinario, come quelli che stiamo vivendo.

“This is not the same as other days / This is something else”. Come rimanere indifferenti dinnanzi a una (non) coincidenza di tale portata? Non solo. Il video di “Life On Earth” è incentrato sulla figura di un astronauta – interpretato dallo stesso Gary – chiuso in una navicella lanciata nello spazio, protagonista di un progetto scientifico ed interstellare. È lui a vivere il secondo tipo di isolamento, quello-fisico geografico, pur rimanendo connesso, grazie ad un beat costante di ricordi e flash forward, alla vita sulla terra. È la prospettiva esterna, lontana ed in terza persona che gli permette di apprezzare la preziosità di piccoli grandi frangenti che ha vissuto o che immagina, non potendo essere presente: la palla nella buca durante una partita di biliardo, il movimento impercettibile della corda di un basso accordato, il primo vagito di un neonato, il suono di un carillon, il bouquet lanciato da una sposa, la sua sposa, il balletto tra madre e figlia, sua figlia. Frame che si susseguono come se fossero custoditi ed innescati da tre oggetti magici che il nostro astronauta ha portato con sé e che lo tengono in contatto con il pianeta: una chiave, un cavallino giocattolo, una pallina di vetro con la neve.

E per quanto sia incredibile la corrispondenza di alcune scene della clip in questione con quelle che vediamo ogni giorni sui telegiornali – studiosi foderati di tute, occhiali e mascherine protettive, ambienti asettici, test e bip di computer – ho percepito ancora più attuale il tema dell’isolamento imposto. Una condizione che dobbiamo assumere per evitare il peggioramento del contagio virale. Una salvaguardia generale, una dimostrazione di senso umano e civico a cui non possiamo e non dobbiamo sottrarci. Una prova di maturità e intelligenza da sostenere, gettando i paraocchi dell’egoismo, osservando con piglio critico e autocritico, con lucidità prospettica, come astronauti che galleggiano nello spazio. Una sfida da accettare e vincere nell’oltrepassare l’individualità, fondendola, in un vitale ossimoro, con la collettività. Un’occasione per riscoprire il contatto con se stessi, prendersi per mano e non temere di guardarsi dentro. Sondare gli strati anche più abissali e bui che la mancanza di tempo e spazio da dedicarci – assieme alla paura di restare senza fiato – ha fatto sì che restassero cassetti chiusi. Partire e ripartire proprio da lì, seguire il corso di cerchi ancora aperti, di altri già chiusi, con fatica, ma completi. Cullarsi nel riposo, nei ritmi ancestrali, nel calore dei nostri cari, vicini e lontani, attraverso il desiderio di prendersene cura con gli strumenti a disposizione: una parola, un messaggio, una telefonata, una videochiamata. Riaccendere il fuoco della passione per la cucina, l’arte, la musica, i film, la lettura, la scrittura, immaginando storie, dipingendo tele, aggrappandosi alle cuffie, sillabando quaderni, sfogliando libri. Gli oggetti magici della vita sulla terra.

E quando ci risveglieremo da questo incubo, quando l’irrealtà lascerà il campo alla realtà, l’aver affrontato il personalissimo tu-per-tu, forse, sarà stato il rimedio per sanare ferite e lacune, fattori principali dell’isolamento emotivo. Sarà bello assaporare nuovamente la genuinità di un abbraccio, la melodia della canzone del cuore ascoltata al concerto tanto atteso, il tintinnio dei calici di vino che brindano al futuro. Sarà meraviglioso correre allo squillo del citofono, aprire la porta del soggiorno inebriato dal profumo di caffè, riempire quelle due tazzine già pronte, sul tavolo.

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