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Editoriali

Anastasio racconta “Le macchine non possono pregare”: «Ho realizzato un sogno, ecco la mia opera rap».

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anastasio ph luigi rizzo

Ci sono voluti tre anni, anni lontani dalle scene, “al riparo dagli scienziati”, quelli dell’algoritmo che, oggi, vorrebbe (ri)disegnare i connotati alla base dell’arte stando ai numeri, ma finalmente Anastasio è tornato sulle scene e con un concept gigante: “Le macchine non possono pregare”. Un album che analizza il rapporto tra uomo e macchina, intenso, potente, attuale, composto di 12 canzoni (la tredicesima, “Una cosa semplice”, che lo ha anticipato è rimasta fuori dalla tracklist), fuori oggi su tutte le piattaforme di streaming e in una miriade di formati fisici: in versione LP Nero, LP Nero Edizione Autografata (in Esclusiva su Amazon), LP Azzurro Edizione Numerata e Autografata (in Esclusiva sullo shop Universal), CD Nero, CD Autografato (in Esclusiva su Amazon) e in edizione limitata sul sito di Discoteca Laziale in versione Bundle contenente LP arancione in edizione numerata, la graphic novel “Le Macchine Non Possono Pregare” edita da Edizioni BD, che porta su carta i temi del nuovo album di Anastasio, accompagnati dai disegni di Arturo Lauria, e il ciondolo Cyber-Mosca con tag NFC per accedere a contenuti esclusivi.

A tre anni da “Mielemedicina”, così, il rapper e cantautore partenopeo, classe ’97, torna sulle scene con un disco, che lui stesso ha definito come la sua “opera rap” e che a noi piace definire una immaginifica camera delle meraviglie, in cui tuffarsi di testa, tra allegorie, simbolismi, rimandi interni, epica, poesia e significati più o meno nascosti. Il tutto sull’onda del flow tornito e incandescente di Marco Anastasio e di un impianto musicale vario, che ben si attaglia ai diversi quadri di quest’opera, con cui l’artista sta incontrando il pubblico nelle date instore del 12 aprile Bergamo (Nxt Station, ore 17:00), 13 aprile Bologna (Locomotiv Club, ore 12:00) e a Perugia (Casa Roghers, ore 19:00), 14 aprile Cesena (Spazio Marte ore 17:00) e ad Arezzo (Malpighi Hub, ore 21:00), 15 aprile Roma (Discoteca Laziale ore 18:00) e 16 aprile Padova (Amsterdam, ore 21:00).

Ben ritrovato Anastasio e con un disco bellissimo. Lo hai definito “un sogno, l’album che renderebbe fiero il ragazzino che ero”. Perché, cosa sognavi da ragazzino? «Sognavo di fare l’opera rap, volevo fare un concept degno di questo nome. Perché volessi farlo non lo so, forse perché tutte le mie influenze convergevano su concept album: De André, i Pink Floyd. Da ragazzino mi ascoltavo questi album e perseguivo la monumentalità del lavoro, sentivo come tutto fosse incastrato e perché avesse un senso. Insomma, volevo farlo anch’io quando ho iniziato a scrivere e ci ho messo tutte le mie energie. Sapevo che l’avrei fatto, era destino».

E, infatti, ci sei riuscito, ma facciamo un passo indietro. Negli ultimi 3 anni sei un po’ scomparso dai radar. Che periodo è stato per te? «Un periodo di cambiamento, di decompressione. Mi è servito per scrivere quest’album, quindi era necessario. Non capisco perché uno debba essere condannato all’esserci sempre. Ultimamente abbiamo sentito spesso parlare di artisti che si ritirano per un po’, perché stanno male. Io non mi sono ritirato perché stavo male, penso che sia un diritto anche di chi sta bene quello di prendersi del tempo per fare le cose belle. Solo questa era la mia esigenza: vivere».

Quello di cui parli, spesso, è legato mondo dei talent, all’effetto che quel genere di meccanismo e un successo improvviso possono generare nel percorso di un giovane artista. Come guardi, oggi, alla tua esperienza ad “X Factor”? «Certamente quel genere di esperienza è provante dal punto di vista psicologico, non è facile. Poi, ognuno la elabora alla propria maniera, ma anch’io ho vissuto la stessa cosa, è ovvio».

Da tutto questo è nato “Le macchine non possono pregare”, un concept sul rapporto uomo/macchina. Il tema è all’ordine del giorno, ma qui c’è molto di più, di diverso, di personale. Da quali pensieri e riflessioni ha preso le mosse questa “opera rap”? «Sì, il rapporto tra la macchina e l’uomo è uno dei grandi temi di quest’album, un altro è la rivolta e secondo me erano temi, di cui era necessario parlare oggi. Quest’album è tremendamente attuale, anche se il grosso l’ho scritto nel 2021, massimo 2022. Poi, il resto del tempo è stato impiegato perché tutto trovasse un equilibrio, una forma, perché tra lo scrivere la musica e il pubblicarla, a volte, ci sono degli step da superare. In ogni caso, il bello è che è ancora attuale. Sono contento che questi temi siamo ancora caldi».

Clicca qui per accedere al profilo IG di Anastasio.

Ad accompagnarla c’è anche un fumetto coi disegni di Arturo Lauria. Com’è nata la voglia o, forse, il bisogno di dare un respiro più ampio alla struttura di questo lavoro? «La storia raccontata nella graphic novel è la stessa che racconta quest’album nei suoi 12 capitoli, che poi sono le 12 canzoni. Era una storia dall’immaginario vivido, quindi si prestava proprio alla forma della graphic novel ed è venuto fuori un prodotto, che è sinergico. Chi si ascolta l’album e si legge il fumetto si fa un quadro completo».

Parliamo del concept: la visione è distopica. L’occhio del Ciclope rimanda all’occhio del Big Brother di “1984” di Orwell, alla rappresentazione dell’occhio della Provvidenza e a Polifemo, il Ciclope, che fermò, ma solo temporaneamente, Ulisse e i suoi nel loro viaggio. E, poi, “Moby Dick”, il Libro di Giona… Quali sono stati i tuoi riferimenti letterari e culturali nell’immaginare il concept del disco? «Questa dei Ciclopi è un’allegoria molto ramificata, perché ci sono tante similitudini. Innanzitutto, nell’“Odissea” il Ciclope viene descritto come un mostro fortissimo, ma dall’animo ingiusto e fondamentalmente stupido. Polifemo è figlio di Nettuno, ma non riconosce gli dei, la sacralità dell’ospite, quindi della vita, dell’uomo. E che cos’è questo se non l’algoritmo, l’ammasso di dati, che tutto vede, ma è cieco di fronte alla vita? Il Ciclope, poi, è anche la telecamera del tuo telefono. Non ho pensato a niente di particolarmente esoterico, niente occhio nel triangolo, niente Massoneria, ma perché secondo me la metafora epica regge di brutto. Poi, di riferimenti culturali è pieno il disco, ma sono nascosti, non è un disco citazionista, semplicemente erano funzionali alla narrazione. Il mio sforzo è stato quello di non fare un disco per intellettuali, ma un disco che possa ascoltare un ragazzo del liceo e gasarsi».

Ci sono alcuni concetti portanti per il concept che vorrei approfondire con te. Partiamo dalla preghiera, che, come atto di fede, è antitetica alla scienza. Che valore attribuisci alla fede? «La fede mi affascina, per me è un grande motore, prima di tutto, artistico. Non so se definirmi religioso, però delle religioni mi piace il mistero».

Il tempo è la più grande trappola per l’uomo? «Il tempo dell’orologio è la più grande trappola. Ci sono tanti tempi: il tempo delle stelle, il tempo dell’orologio, quello degli animali. Il tempo intrappolato, quello delle macchine, è una trappola incredibile, che ci costruiamo da soli».

E, poi, c’è la poesia. All’inizio del disco parli del giacinto, il fiore dei poeti, parli di una sorta di investitura e, poi, nel corso della rivolta, entra in scena la figura di Baudelaire. È una sorta di tuo alter ego? «Sì. Non avevo pensato al fatto che il giacinto è il fiore dei poeti, ma era un riferimento foscoliano, alle sponde di Giacinto, dove vergine nacque Venere, mentre io dico: alle sponde di Giacinto c’è una venere che muore tra le reti dei pescatori a strascico. Mi piaceva questo gioco e il tema della poesia è molto presente in questo disco. C’è Baudelaire, c’è Massimo Ferretti, “Sono un animale ferito” non è altro che una sua poesia musicata. I riferimenti poetici ci sono, perché io prendo ispirazione dalla poesia e sono molto coerenti con la storia, non li metto lì per fare l’operazione cultura, ma sono davvero organici con il resto dell’album».

La rivolta: dopo la seduzione e il sopravvento della Madre Elettrica, scatta la rivolta, ma nel momento stesso in cui avviene, naufraga, muore. Un’utopia? «È un tema difficile. Sono tante le rivolte di cui si parla in questo disco: la rivolta dell’uomo contro la società, la rivolta della folla contro l’imperatore, la rivolta armata, la rivolta dell’uomo contro se stesso o contro la tecnologia, la rivolta stessa della macchina, che prova a pregare. Il tema è sviscerato, ma ogni rivolta, alla fine, sbatte contro un muro e ha un suo risvolto negativo: la rivolta contro il mondo ti porta a essere solo, quella contro te stesso ad alienarti. Forse solo la rivolta interiore, spirituale è quella che può guidarci».

È “Il cigno” (la poesia, la morte, la solitudine, il Cristo), che invoca “La pioggia” (la trasformazione, la purificazione, il cambiamento)? Il finale della tua opera si apre alla speranza, ma dopo il fallimento della rivolta, dove va cercata la scintilla del cambiamento? «Il pezzo “Il Cigno” è ispirato all’omonima poesia di Baudelaire e questo lampo di luce alla fine dell’album è la sua degna conclusione, perché io non voglio fare musica per disperati. Non sono disperato, anzi, penso che la vita, l’umanità sia a un ottimo inizio. Non so dove andremo a parare, è pieno di motivi per disperarsi, però la vita è già un miracolo, basta a se stessa e continua sempre, anche dopo il tracollo. Questo disco racconta in una storia, che finisce in un disastro, eppure dopo piove e l’erba torna a crescere».

“Ipocrita fratello” è la traccia meno allegorica e più politica dell’album. Del pezzo mi ha colpito particolarmente la critica all’istruzione: L’educazione è un esperimento, è un’operazione a cuore aperto col paziente sveglio, canti. «Più che sull’istruzione, mi volevo focalizzare sul ragazzino, che è sempre preso tra mille fuochi: l’istruzione a casa, a scuola, l’istruzione della pubblicità, nel mio caso era televisiva, ma oggi al ragazzino basta un accesso a internet, per trovarsi al centro di una contesa, dove tutti lo tirano da ogni parte. Tutto quello che leggi, tutto quello che ascolti è plagio, alla fine, perché è impossibile non essere influenzati dal mondo, soprattutto quando ci sono miliardi spesi in pubblicità, in mille propagande diverse. Il bambino è pura percezione, non è ancora stato corrotto dal mondo e tutto quello che si fa, per cercare di insegnargli qualcosa, è un esperimento, per forza di cose».

Perché hai escluso “Una cosa semplice” dalla tracklist del disco? «Quel singolo rispetto a questo disco è una porta d’ingresso col tappetino welcome, è un satellite, che gli orbita intorno, lo guarda da lontano, ne racchiude un po’ tutti i temi, la rivolta, la tecnologia e anche l’amore. Magari in futuro, in una repack, ce lo infiliamo».

A proposito di futuro: live? Questo lavoro potrebbe avere un fascino tutto suo in scena. «Vogliamo provare a dare un senso narrativo anche al live, sarebbe un’occasione persa rappresentare questo disco dal vivo come una specie di playlist, invece che come una storia. Ci stiamo provando, ti dico solo questo».

Tempistiche? «Ci sarà un tour estivo, che comunicheremo tra pochissimo. E poi, da ottobre, nei club».