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Quello che nessuno vi dirà su Senjutsu, nuovo album degli Iron Maiden

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Cosa spinge gli Iron Maiden, degli ultra sessantenni affermati in ogni parte del mondo e riconosciuti come autentica leggenda vivente della musica rock, a produrre nuovi album? Fondamentalmente la necessità stessa di mantenere viva la scintilla creativa, l’impulso che ogni Artista propriamente detto deve conservare come condizione necessaria e sufficiente per definirsi tale. Impulso che si concretizza nel 2021 in “Senjutsu“.

Certo, non sempre i risultati possono essere strabilianti. Anzi. Ma questo dipende anche da chi ascolta, dall’epoca in cui la musica viene prodotta, dal contesto principalmente in cui accade il rito di cui ogni appassionato di quest’arte non può fare a meno: confrontarsi con del nuovo materiale. Inciso non per logiche commerciali, non con finalità di totalizzare più streaming possibili. Ma pubblicato solo per il puro piacere di voler dar sfogo alla propria creatività, per placare (per un po’ ancora almeno) quell’irrinunciabile necessità di comporre.

Ascoltare un nuovo album degli Iron Maiden per chi li segue da oltre 30 anni, li ha visti sul palco più di 20 volte, li ha intervistati e amati oltre ogni limite, ha una duplice funzione. Ritrovare quelle atmosfere, quelle emozioni che si sono vissute moltissime volte e sentirle vive e vegete ancora oggi. Rintracciare ogni minima corrispondenza con note già ascoltate nei dischi precedenti, esaltarsi per le cavalcate, il lavoro delle tre chitarre e l’inconfondibile voce di uno dei cantanti più iconici della scena hard & heavy.

L’altra funzione invece serve ad allenare quella parte critica (sempre che ne sia rimasta, vivendo oggi nell’epoca della polarizzazione e del credo aprioristico su ogni tema che si affronta) e di onestà intellettuale che dovrebbe albergare in ognuno di noi. Tanto più se si campa parlando/scrivendo di musica da sempre e si crede di saper fare abbastanza bene il proprio mestiere.

Per quanto ci sia da ringraziare ogni possibile divinità esistente e immaginaria per avere la fortuna di ascoltare nel 2021 nuova musica degli Iron Maiden (sostituite Iron Maiden con Metallica, AC/DC, Guns eccetera in base a quale che sia la vostra parrocchia), la sostanza contenuta in “Senjutsu” è riassumibile nei punti di seguito:

  • quando i nostri spingono fanno ancora godere: per quanto “Days Of Future Past” ricordi “The Pilgrim” (sottovalutata traccia di “A Matter Of Life and Death“) e “Stratego” non sia sicuramente niente di nuovo, l’impatto dal vivo è garantito. Pochi fronzoli ed heavy metal fatto senza fatica con massimo appagamento, specialmente per chi considera “No Prayer For The Dying” tutt’altro che da buttare.

  • I pezzi lunghi belli sono stati già composti negli anni Ottanta. Ogni forzatura successiva, con pochissime eccezioni rispondenti a “The Sign Of The Cross” e “The Clansman” di Bayley-iana memoria, sono da considerare ripetizioni di una formula che da “Brave New World” in poi (e, notare bene, “Dream Of Mirrors” mi fa impazzire ancora oggi) ha ricalcato infinite volte la stessa struttura compositiva. Sulla quale non serve spendere troppe parole, visto che basta l’intro arpeggiata per capire dove si andrà a parare nei minuti successivi. Inclusi i 40 ritornelli ripetuti senza sosta per arrivare a un minutaggio elevato a ogni costo, le marcette e i piripiri che da “Dance Of Death” in poi hanno iniziato a essere davvero troppi. Capisco la voglia di riprovare a scrivere una “Paschendale” o “The Longest Day” come in “Death Of The Celts” e “The Parchment”, ma davvero Steve: abbi pietà di noi per favore! Relativamente alla conclusiva “Hell On Earth” (col giro iniziale di “Fear Of The Dark”), mi astengo da ogni ulteriore commento.

  • La libertà compositiva mostrata nel singolo di lancio “The Writing On The Wall” è rimasta purtroppo isolata. Avrei preferito un lavoro in cui davvero i Nostri suonassero un ibrido tra hard e classic rock senza troppe complessità rispetto a “polpettoni” come “Lost In A Lost World” e come nei devastanti 25 minuti conclusivi. Per tacere della traccia che dà il nome al loro disco: “Senjutsu”, oltre a ricordare inizialmente “The Fugitive” di “Fear Of The Dark” (1992), vira poi su uno stile alla “Nomad” di “Brave New World”, ma è difficile pensarla come opener di un album. L’avrei vista meglio prima del “polpettone” finale. Almeno avremo potuto limitarci ad ascoltare solo 1 disco su 2.

  • The Final Frontier” (2010) aveva una seconda parte certamente difficile ma affatto scontata. “The Talisman” e “Starblind” restano ancora oggi due canzoni decisamente ispirate e “diverse dal solito”, che mostravano una predisposizione progressive che era rimasta in disparte per troppo tempo. Ma non è certo con le forzature di “The Time Machine” (in ogni caso sicuramente tra le meno peggio del lotto) che queste verranno riconsiderate. Chiaro, quegli accordi ci faranno sempre piangere e saltare fin quando le gambe ci reggeranno. Ma è tutto troppo già sentito. Molto più onesta “Darkest Hour” che sembra una rivisitazione di “Wasting Love” quasi trent’anni dopo (prodotta oggi peggio di allora, ed è tutto dire), benché non sia certo qualcosa di indimenticabile.

  • La cosa peggiore, per l’appunto, rimane quella che dopo tutti questi anni è oramai la norma: la produzione tremenda e casinara di Shirley (certamente avallata se non “incoraggiata” da Harris), che con l’idea di suonare “live” il più possibile rende “Senjutsu” indigeribile specie quando la voce di Bruce rimane molto indietro (succedeva già in “The Book Of Souls“) e quando le chitarre, magari impegnate in un fraseggio o un solo di spessore, restano annegate nell’insieme. Insieme da cui la batteria del grande Nicko McBrain finisce nel dimenticatoio per impatto e rilevanza anche quando dovrebbe spiccare.

Detto che i fan supporteranno l’uscita, che “Senjutsu” arriverà in cima a molte classifiche, che speriamo di poter vedere gli Iron Maiden su un palco ancora per moltissimi anni, la realtà delle cose è che, escludendo la componente emotiva, è davvero tanto che in studio i Maiden hanno poco da dirci.
Tecnicamente non c’è molto su cui obiettare sia chiaro, averne di esecutori simili. La voglia e il sincero trasporto nel pubblicare nuova musica, anziché vivere sfruttando un catalogo straordinario, è un ottimo segno, da rispettare e da ammirare.

Osannare a priori ogni uscita però è sbagliato. Lasciamolo fare a chi sostiene che Motorhead ed AC/DC abbiano sempre sfornato capolavori. Cosa che per questioni di fede è verità assoluta, per carità.
Ma se vogliamo essere oggettivi, per ritrovare il piacere d’ascoltare un album degli Iron dall’inizio alla fine tocca risalire a “Brave New World”. E parliamo oramai di 21 anni fa.

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